martedì 16 aprile 2013

Il Catasto Onciario: alle origini della dichiarazione dei redditi



La riforma del Catasto Onciario, trovava la sua raison d’etre nell’esigenza di provvedere al censimento sia della popolazione che della ricchezza prodotta nel Regno e di arginare in tal modo lo strapotere fino ad allora detenuto, in materia fiscale, dalla Regia Camera della Sommaria.
Con il Catasto Onciario si intendeva introdurre un sistema tributario maggiormente equo e uniforme, che sostituisse quello precedentemente in vigore, essenzialmente basato sulla tassazione degli abitanti e non su quella dei beni e della ricchezza in genere. Altra novità fu la tassazione dei beni ecclesiastici, prima non soggetti a imposte.

Per la formazione del catasto Onciario tutte le Università, eccettuati Napoli e i suoi casali, esentati da imposte, dovettero eleggere dei deputati e degli estimatori, incaricati degli “atti preliminari” e, rispettivamente, della valutazione («apprezzo») dei beni.
I cittadini e tutti coloro che possedevano beni erano invece tenuti alla redazione delle «rivele», vere e proprie autocertificazioni nelle quali, oltre ad elencare i componenti della famiglia con le relative attività, dovevano riportati i redditi e gli eventuali pesi deducibili ai fini del calcolo dell’imponibile. All’esito della raccolta delle «rivele», sostituite in mancanza dalle valutazioni degli estimatori, veniva redatto il libro del catasto, nel quale era riportato il calcolo della tassa a carico di ciascun nucleo familiare.
È importante ricordare che, ai fini di un preciso censimento della popolazione del Regno, fu richiesta l’opera dei parroci, che, mediante il cosiddetto “Stato delle Anime”, nel quale si registravano battesimi, matrimoni e funerali, erano i soli ad avere un quadro preciso della popolazione residente.
In quest’ottica, il Catasto Onciario, a prescindere dalle difficoltà e dalle resistenze opposte da molte Università, costituisce un antecedente dell’introduzione dello Stato Civile, poi voluta da Gioacchino Murat a partire dal 1809, e rappresenta comunque un documento di fondamentale importanza ai fini della ricostruzione delle condizioni economiche e sociali nel secolo XVIII. Esso, infatti, elenca analiticamente le singole famiglie, con indicazione dei nomi dei componenti, della loro età, dei rapporti di parentela, e i relativi possedimenti.
Prima della redazione del Catasto Onciario, le università del Regno di Napoli adottavano due metodi di esazione fiscale: esse, come si diceva, vivevano «a gabella» oppure «a battaglione». Con il sistema delle gabelle il prelievo fiscale consisteva esclusivamente in dazi che gravavano sui consumi. Con il sistema a battaglione, invece, veniva fatto l'apprezzo dei beni stabili di proprietà dei cittadini e dei redditi derivanti dalle loro attività, che, una volta detratti i pesi, vale a dire gli oneri finanziari ai quali erano assoggettati (censi, interessi, ecc.) erano sottoposti a prelievo fiscale.
Il catasto Onciario fu ordinato da Carlo con dispaccio del 4 ottobre 1740 e regolato da una serie di disposizioni emanate dalla Regia Camera della Sommaria tra il 1741 ed il 1742, per un totale di 12 Prammatiche riunite tutte sotto lo stesso titolo “Forma censualis, et capitationis, sive de catastis”, la prima delle quali è del 17 marzo 1741. Accanto alle precise istruzioni relative alla formazione degli Onciarii venne disposto, fra l’altro, che anche i feudatari dovevano esibire le rivele di tutti i loro beni, affinché questi potessero essere accatastati rispettando tutte le formalità stabilite dalle Prammatiche stesse. Il catasto Onciario, così chiamato per il fatto che le stime dei valori relativi alla ripartizione delle imposte venivano espresse in once, descrive attraverso i toponimi e con una certa precisione i confini dei vari demani.
L'esigenza di razionalizzare il prelievo fiscale attraverso la redazione di un catasto si inscrive nella nuova temperie culturale dell'età dei lumi ed è avvertita un po' dovunque: basti pensare al catasto teresiano della Lombardia ed a quello leopoldino della Toscana, coevi all'Onciario napoletano.
I lavori preparatori del Catasto incontrarono le resistenze dei maggiorenti locali, che furono più forti nelle università abituate a vivere a gabella, dove i proprietari erano più restii a fare le rivele dei propri beni.
L'ultima prammatica sui catasti del 28 settembre 1742 ordinava che i catasti fossero approntati entro quattro mesi. Più di dieci anni dopo, tuttavia, la redazione del catasto in molti comuni non era stata ancora completata. Il re, pertanto, nel maggio del 1753, emanò una nuova prammatica che prevedeva l'invio di commissari nelle università inadempienti per portare a termine i lavori: ciò spiega perché la maggior parte dei catasti onciari sia stata redatta tra il 1753 ed il 1754.
Ciò nonostante, non dovunque si arrivò al completamento del catasto: alla fine il sovrano fu costretto a cedere e ad accettare il principio che i comuni potessero scegliere a loro arbitrio se vivere a gabella oppure se fare il catasto. La denominazione di questo catasto deriva da oncia, che era una moneta di conto, non reale, in base alla quale si calcolavano i redditi e le relative imposte.
Nel 1749 Carlo III fece coniare una nuova moneta denominata oncia napoletana, del valore di sei ducati, che, tuttavia, ebbe scarsa diffusione, in quanto si continuarono ad usare il ducato ed i suoi sottomultipli: il carlino, che era la decima parte di un ducato, la grana, che era la centesima parte, ed il cavallo, che era la millesima parte.
Le imposte previste dall'Onciario erano di tre tipi: il testatico, che gravava sui capifamiglia, ad eccezione di coloro che avevano compiuto i sessant'anni, ed era uguale per tutti - in genere ammontava ad un ducato per fuoco -; l’imposta sui redditi da lavoro sull'industria che gravava sui soli maschi a partire dall'età di quattordici anni (dai quattordici ai diciott'anni si pagava la metà), che era calcolata in base al reddito presuntivo previsto per i vari mestieri e non in base al reddito reale; l’imposta sui beni, che gravava sugli immobili (case, terreni, mulini, frantoi, ecc.) sul bestiame e sui capitali dati in prestito ad interesse.
I proprietari erano divisi per categorie: i cittadini, le vedove e le vergini in capillis (vale a dire le nubili che non avevano preso i voti religiosi), i forestieri abitanti, i forestieri non abitanti «bonatenenti» (coloro che possedevano beni nel comune senza risiedervi), gli ecclesiastici secolari, tanto cittadini che forestieri, le chiese e i luoghi pii, sia locali che forestieri. Nell'ambito di ogni categoria i contribuenti sono elencati in ordine alfabetico per nome e non per cognome.
Il Catasto fornisce, a tutti gli effetti, dettagliate informazioni sui beni dei contribuenti: delle abitazioni è descritta la tipologia, l'ubicazione, spesso anche la grandezza («casa palaziata», «comprensorio di case di vani soprani e sottani»); dei terreni sono indicati i confini, l'estensione e la natura delle colture; vi è quindi la descrizione degli eventuali capi di bestiame.
All'elenco dei beni segue quello dei pesi, costituiti, in genere, dal pagamento di censi e canoni agli enti ecclesiastici e al feudatario e da interessi su capitali presi in prestito.
Il Catasto fornisce, altresì, dettagliate informazioni sui nuclei familiari, indicando, per ciascuno di essi, il numero dei componenti, la loro età, l'attività svolta ed il rapporto di parentela con il capofamiglia.
Dal testatico e dall'imposta sul lavoro erano esonerati coloro che vivevano more nobilium, cioè di rendita, o che esercitavano professioni liberali. Il Catasto si conclude, infine, con la collettiva delle once, vale a dire con l’elenco dei contribuenti, divisi per categoria, e delle rispettive rendite.
In ultima analisi, le difficoltà del Catasto furono evidenti: su quella prima applicazione l’introduzione delle nuove disposizioni fiscali sui beni immobili; l’imposta patrimoniale si affiancava alla tradizionale imposta personale del testatico e la povertà continuava ancora, soprattutto tra le classi più povere.
L’obiettivo principale con l’istituzione del Catasto fu quello di incrementare le pubbliche entrate aumentando, però, il numero di tributi e delle tasse da cui non furono esenti neanche ecclesiastici. Si cercò quindi, di conseguire una migliore giustizia sociale e tributaria ma si finì con l’incrementare il gettito dei tributi.

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