lunedì 22 luglio 2013

L'antica Lucania. 8. Un Alessandro in Lucania

Alessandro nacque, primogenito di Neottolemo, re del Molossi, una delle più grandi tribù in Epiro, nel 370 circa a.C. Durante il regno di Neottolemo, la tribù epirota divenne più sedentaria, iniziando l'urbanizzazione.
Quando Neottolemo morì (c. 360 a.C.), suo fratello Arybbas divenne re, rafforzando la sua posizione con un trattato con il nuovo re di Macedonia, Filippo II (360-336) e cementandolo con un matrimonio diplomatico: Olimpia, figlia di Neottolemo, divenne regina di Macedonia, mentre suo fratello minore Alessandro, inviato in Macedonia e, avrebbe ricevuto una formazione greca.
Nel 350, Filippo invase la Molossia e installò Alessandro come re: Arybbas fuggì ad Atene, dove morì in pace nel 342. Dal momento che sarebbe stato irresponsabile fare un re ragazzo, possiamo dedurre che Alessandro fosse nato nel 370 circa.
Quasi nulla si sa del suo regno, tranne per il fatto che egli riunì le altre tribù epirote e offrì asilo a sua sorella Olimpia quando era caduta in disgrazia nel 337. Alessandro non era molto forte, però: quando Filippo gli offrì la mano di Cleopatra, la figlia di Olimpia, acconsentì al matrimonio, mettendo Olimpia in una posizione molto isolata. La morte di Filippo, nel mese di ottobre 336, gli avrebbe impedito di estradare sua sorella.
Il nuovo re macedone è stato Alessandro Magno, che ha deciso di conquistare il est. Allo stesso tempo, nel 334, Alessandro il Molosso ha deciso di intervenire in Occidente, dove le colonie greche divise in Italia sono stati minacciati dalla federazione di tribù di montagna che è noto come i Sanniti. Erano guerrieri formidabili che si era, nel secolo precedente, conquistato diverse città greche. Solitamente, i greci italiani assunti mercenari nella madrepatria per aiutarli. Ad esempio, il re Archidamo III di Sparta aveva fatto una campagna nel "tacco" d'Italia tra il 343 e il 338, e il corinzio Timoleonte aveva liberato Siracusa dalla minaccia cartaginese in una serie di guerre tra i 344 e il 337.
Supporto dei Greci in Italia non era probabilmente l'unico motivo per le azioni di Alessander dall'altra parte dell'Adriatico. La lotta contro i pirati deve essere stato un ulteriore motivo.
La nostra fonte più importante per la campagna di Alessandro è la storico romano Tito Livio (59 aC - 17 dC), che lo descrive nel libro VIII della Storia di Roma dalla sua fondazione, cap. 24. Egli afferma che Alessandro aveva accettato l'invito del Tarantini. Il suo più importante motivo era, secondo Tito Livio, che ci fosse un oracolo che gli aveva detto che sarebbe stato ucciso nei pressi dell'Acheronte, un fiume in Grecia occidentale. Dopo aver sconfitto i Sanniti, Alessandro si mosse contro i Lucani e Bruzi. Conquistata Heraclea (una città greca, che era stato catturata dalle tribù italiche), prese Sipontum e catturato Consentia e Terina. Le tribù furono sconfitte più volte e Alessandro avviò negoziati con la potenza leader nel Centro-Italia, Roma, che anch'essa temeva la guerra con la federazione sannita.
Sembrava in controllo della situazione, quando il suo esercito fu inaspettatamente attaccato vicino Pandosia. Anche se era in grado di tagliare le perdite e uccidere il leader nemico, fu un duro colpo. Quando Alessandro cercò di portare il suo esercito in sicurezza attraversando un fiume, fu assassinato da uno dei suoi alleati. Come si sarebbe scoperto, il fiume era chiamato Acheronte, proprio come il fiume in Grecia occidentale.

venerdì 19 luglio 2013

Matera. 4. Giuseppe Gattini

Giuseppe Gattini, conte di Castel Timmari, nacque a Matera il 22 luglio 1843 da Francesco e Nicolassa Carcano. Di un'antica famiglia nobiliare della città di Matera, studiò nel collegio napoletano degli Scolopi. In effetti, i Gattini erano un'antichissima famiglia materana, tra le più antiche di quella città, che diede importanti uomini d’arme, letterati, sindaci e amministratori della cosa pubblica ininterrottamente per circa otto secoli.
Tra di essi occorre menzionare Francesco (Cicco), autore nel 1440 dell’inedito De bello neapolitano e di una genealogia della sua famiglia, Francesco (m.1785), autore di numerose opere, Giuseppe (n. 1753) celebre storico, pubblicò varie opere tra cui Memorie per la storia di Matera.
I Gattini sono considerati una delle famiglie nobili più importanti di Matera insieme ai Ferraù, ai Malvinni Malvezzi, gli Agata, gli Alemo, i Santoro, i Ricchizio, i Sinerchia, i D’Angeli, del Duce.
In epoca moderna la famiglia ha usato il titolo di conte, riferendosi alla antichissima investitura comitale di Castel di Timmari a 6 miglia da Matera, e dei due casali di Picciano e S.Maria della Palomba, che risalirebbe all’XI secolo, nella persona di Teodoberto.
Durante i moti popolari della città il 7 agosto 1860 Giuseppe Gattini subì il lutto dell'uccisione di suo padre, il conte Francesco. 
Da alcuni mesi nel popolo si era affermata l'idea che alcuni proprietari terrieri avevano usurpato al demanio vaste aree del territorio comunale. Verso la fine di luglio l'agitazione popolare aumentò anche a causa delle azioni sobillatrici dei reazionari borbonici che puntarono a colpire proprietari terrieri di area liberale, cioè favorevoli all'unificazione all'Italia della terra lucana. Il re Borbone, nel tentativo di riconquistare il favore dei suoi sudditi, aveva concesso la Costituzione e decretato il riconoscimento degli usi civici delle terre demaniali.
Il popolo materano contestò con più forza i diritti di proprietà di alcuni latifondisti: il marchese Pomarici, il duca Malvezzi, il marchese Venusio, Francesco Paolo Porcari, Filippo Giudicepietro, Francesco Paolo Volpe e il conte Francesco Gattini, ma le attenzioni si spostarono principalmente su quest'ultimo, perché era il più vicino al pensiero liberale.Francesco II aveva anche decretato la concessione di un'amnistia e i reazionari materani fecero capire ai contadini che l'amnistia concedeva un'impunità di sei mesi per i reati commessi in questo periodo di tempo. E i contadini si convinsero che fosse giunto il momento di impadronirsi, con ogni mezzo, delle terre usurpate dai grandi proprietari agrari (politicamente schierati per le idee liberali).
Il Gattini, resosi  conto di quello che si stava tramando, si rivolse alle autorità politiche e militari della città, nelle persone del sottointendente Francesco Frisicchio, dell'Ispettore di  Polizia Giustino Pisani, del tenente di Gendarmeria Nicola Signoretti e del capo-urbano Gennaro De Miccolis, pregandoli di adottare le giuste misure per evitare l'irreparabile.Contemporaneamente scrisse al Sindaco affermando la sua disponibilità perché fosse accertato se fra i suoi terreni vi fossero appezzamenti demaniali e, in tal caso, dava la sua disponibilità a restituirli alla proprietà pubblica. Il conte fece comunicare quanto da lui deciso anche per mezzo della grida pubblica: questo atto di liberalità del Conte parve una vittoria ai rivoltosi che chiesero anche agli altri agrari e allo stesso Vescovo, sospettati di aver usurpato terre demaniali, di rilasciare analoga dichiarazione dinnanzi al Sindaco.
Allora tutti i borghesi interessati perché sospettati dai rivoltosi si recarono in delegazione dal sottointendente e dal tenente di gendarmeria per essere difesi dalle possibili angherie. Ma la risposta delle autorità fu che non vi erano istruzioni in merito. La guarnigione, forte di ben 80 uomini, non intervenne per prevenire quanto si stava preparando.
I rivoltosi, rassicurati dall'appoggio manifesto della gendarmeria, chiesero ed ottennero le dimissioni del sindaco Tommaso Giura Longo e Giovanni Corazza, eletto nuovo Sindaco, come primo atto nominò l'avvocato Giambattista Matera di Miglionico, affinché si accertasse dai documenti che presentava il Gattini la validità o meno dei titoli di proprietà. Giambattista Matera era notoriamente un liberale essendo stato, nel 1856 e nel 1857, uno dei principali capi della cospirazione "mazziniana": nominandolo, il Sindaco cercava di coinvolgerlo anche sul piano della responsabilità politica.
Il Segretario del Gattini era Francesco Laurent, musicista e liberale, agente di collegamento con il Comitato di Corleto e presidente del Comitato materano.
Ma molti erano i nemici che volevano il Gattini morto, fra tutti la maggiore responsabilità deve essere attribuita al ricco possidente Gennaro De Miccolis, comandante della Guardia Nazionale, che odiava il conte sospettandolo di aver ostacolato le sue ambizioni quando invano aveva cercato di divenire Capo-Urbano ma anche quando aveva chiesto ed ottenuto l'ultimo incarico nella Guardia Nazionale.
Il 5 e il 6 agosto fu chiaro che le cose volgevano al peggio. Il 7 agosto i contadini non andarono al lavoro e  minacciarono apertamente di morte il Gattini e il Laurent, suo consigliere, dicendosi convinti che solo con il sangue i demani sarebbero stati riconquistati. Il Gattini, fece allontanare da Matera la moglie e i figli, facendoli partire per Altamura e poi per Trani.
Sul far della sera alcuni rivoltosi, dopo aver acquistato dell'acquaragia da un droghiere di Altamura, diedero fuoco al portone del palazzo Gattini. Il conte, Laurent e i camerieri riuscirono a spegnere il fuoco prima che l'incendio si propagasse al resto dell'edificio. La Guardia Nazionale, seppur avvertita, non intervenne.
Il giorno 8 alle porte della città un gran numero di facinorosi impedì ai contadini di recarsi in campagna, mentre altri percorrevano le vie della città armati, minacciando morte e distruzione.
Il Gattini, spaventato ed atterrito da quanto era accaduto e dalle notizie ricevute su quanto stava accadendo, fece sapere al sindaco per mezzo del sacerdote Contini che egli era disposto a cedere un quarto e finanche un terzo della sua proprietà con atto notarile. La sua proposta fu respinta e la folla chiese che la divisione delle terre del demanio fosse fatta seduta stante.
Un gruppo più violento iniziò a menare colpi di scure sul portone per abbatterlo, al che il conte si affacciò al balcone dicendosi disposto a cedere l'intera sua proprietà e dando notizia di aver mandato a prendere le carte dal notaio. Anzi, per dar segno della sua disponibilità lanciò le monete contenute in una borsa, ma i contadini lo presero come un atto di disprezzo nei loro confronti. Una scarica di archibugi fu la risposta della folla inferocita.
La folla sempre più numerosa riuscì ad abbattere il portone e ad entrare nel palazzo che iniziarono a devastare. Furono rubati pacchetti di monete per complessivi ducati 3361,60. Il Gattini, il nipote Enrico Appio e Francesco Laurent riuscirono a rifugiarsi, per mezzo di una scala segreta, nella stalla del Duca Malvezzi. Venne trovato un cameriere del conte, Michele Rondinone, che terrorizzato indicò dove il conte si era nascosto: il Gattini, portato fuori della stalla fra grida di scherno, ricevette i primi colpi, una stilettata alla tempia sinistra e una baionettata.
Mentre la folla gridava: “Viva il Re, morte a Gattini”, il conte venne trascinato sulla piazza e posto su una sedia dove fu colpito da una scure all'occipite. Venne posto più in alto perché tutti potessero vederlo. Il conte chiese un sorso d'acqua. Uno dei presenti, mosso a pietà, gliene portò un bicchiere, ma un altro facinoroso con un colpo fece saltare in aria il bicchiere gridando: “Cristo ebbe il veleno!”.
Un altro domestico del Gattini, Giovanni Santorsola, fattosi largo fra la folla, disse al suo padrone che il notaio non aveva potuto trovare in casa le carte necessarie per l'atto di cessione delle proprietà.
Il Gattini restò in silenzio a fissare sconfortato il proprio domestico. La folla colpì il Santorsola che, pur avendo ricevuto una scarica di bastonate e un colpo di stile, riuscì a fuggire ed a nascondersi in casa di una pietosa donna.
Nel frattempo anche Laurent venne trascinato in piazza. Come il Gattini lo vide avvicinare, esclamò: “Tu ci colpi ai guai miei”. Queste parole diedero il via ad una ferocia senza limiti. Un forcone colpì negli occhi il Laurent e poi al ventre il Gattini. Un altro popolano inferse al conte colpi di baionetta e gli assestò un colpo di mazza.
Venne preso anche Michele Rondinone e lo trascinarono dove giacevano i due cadaveri. Lo accusarono di non aver fatto consegnare le carte del padrone e smisero di colpirlo solo quando lo videro cadavere. In mezzo alle grida assordanti di "Viva il Re", i cadaveri vennero trascinati all'ultima loro dimora. Il Sottintendente, l'Ispettore di Polizia, il Tenente di gendarmeria ed il capo della Guardia Urbana si giustificarono dicendo che non potevano rischiare anche la vita dei pochi gendarmi disponibili.

Sindaco di Matera dal 1877 al 1880, Giuseppe Gattini fu nominato senatore il 4 dicembre 1890 e si dedicò assiduamente agli studi di storia locale nella sua Matera, dove morì il 21 novembre 1917. Così lo ricordò in Senato il conterraneo Domenico Ridola:

Egli fu nobile di provata antichissima nobiltà e non ne menò vanto mai, ma a questa nobiltà di sangue accoppiò una nobiltà più invidiata e più degna, la nobiltà della vita e delle azioni.
Fu di carattere mite e costante. Non ambì la gloria crudele degli eroi sterminatori di uomini e di cose nelle battaglie conquistatrici. Gli sarebbe stato assai facile, ma non lo sedusse la vanità di esser caro alla folla, che esalta oggi ed inabissa domani il proprio idolo, con la facilità spensierata e chiassosa del fanciullo, che adora per poco il suo giocattolo favorito e poi lo spezza.
Egli si chiuse in più breve campo e volle essere modesto, laborioso, rettilineo, fermo ma benevolo e cortese con tutti e fu tale sempre nelle sue qualità di conte, cittadino, consigliere comunale e provinciale, sindaco e senatore.
Non so dire con quanta cura paziente e con quale dispendio egli seppe raccogliere le opere e le memorie biografiche di coloro che avevano illustrato la sua città natale e riprodurre in altrettanti quadri i ritratti.
Non menò vanto delle medaglie e dei diplomi guadagnati in tante esposizioni di prodotti agricoli a Portici, Napoli, Torino, Londra, ecc. Né montò in superbia per la splendida accoglienza fatta alle sue preziose Note storiche sulla città di Matera, di cui si accingeva a fare una seconda edizione ampliandola di nuovi documenti da lui raccolti. Né fu orgoglioso per il plauso e le lodi che gli vennero da ogni parte ad ogni nuova pubblicazione delle tante svariate monografie sopra argomenti d’indole differente. Basta citarne qualcuna, p.e. quella sulla monumentale cattedrale di Matera, sulle razze dei cavalli del Regno di Napoli, e il preziosissimo Saggio di biblioteca basilicatese e molte altre tutte pregevoli.
Nel conversare pareva una miniera inesausta di conoscenze d’ogni genere. Era una festa dell’intelletto il discorrere con lui di storia, di araldica, di numismatica, di pittura, nella quale ultima egli stesso era un valore. Ebbe l’anima dello scienziato e dell’artista e dai suoi trionfi non trasse che maggiore incitamento al lavoro. Le primissime ore del mattino lo trovavano desto e al suo tavolo di studio in mezzo ai suoi libri, alle sue carte, ai suoi documenti.
Sopportò con animo sereno e virile anche le sciagure che si abbatterono sulla sua casa.
Ahimé tanto tesoro di operosità fattiva era chiusa, come in una parentesi, da due date dolorosissime. Il padre suo morì vittima della reazione borbonica nel 1860. L’ultimo dei suoi figli, andato soldato in servizio della patria, vi contrasse una feroce malattia che inesorabilmente lo portò al sepolcro, precedendo di poco il padre suo dilettissimo.
Fu marito e padre esemplare ed ebbe in cima dei suoi pensieri l’educare i suoi figli alla virtù, al sapere ed all’arte e ciò fece con il suo esempio, con la parola e l’opera sua.
Oggi la sua famiglia desolata si aggira nelle stanze deserte e per lunga consuetudine, rivede ancora quell’ombra adorata e ripete a buon diritto le parole di Amleto dopo l’apparizione dello spettro paterno:
Egli fu tale che a giudicarlo sotto tutti gli aspetti, non vedrò mai chi lo eguagli.

Tra le sue opere: Note storiche sulla città di Matera, Napoli, Perrotti, 1882; Saggio di biblioteca basilicatese, Matera, Tip. la Scintilla, 1908; Delle armi de' comuni della provincia di Basilicata, in "La Scintilla", X (1910), 5; XI (1911), 7.  

martedì 16 luglio 2013

Paesi lucani. 8. Montalbano: la chiesa di Santa Maria dell'Episcopio (Caterina Bevilacqua)

La pianta della Chiesa è a croce; ha tre navate, quattro cappelle,ed elementi decorativi di stile barocco. All’origine la Chiesa Madre aveva una sola navata; nel 1534 furono aggiunte altre due navate. In quest’ultime sono state create quattro cappelle, la cappella principale è quella dedicata a San Maurizio; opera composita di architettura, scultura, pittura ed intaglio, con splendida pala lignea di scuola napoletana e con decorazioni barocche. La storia narra che Maurizio era a capo di una legione Tebea e dopo una missione svolta a Gerusalemme, lui e tutta la legione si convertirono al cristianesimo. Quando successivamente gli venne ordinato dall’imperatore Massimiano di sopprimere una rivolta fomentata da un gruppo di Galli nella contrada Bagaudi, svolgendo prima un sacrificio pagano, Maurizio e i suoi soldati si rifiutarono e vennero giustiziati. Così come martire militare, S. Maurizio fu beatificato nell’XI secolo, diventando esempio e patrono del guerriero cristiano alle crociate e dei più antichi ordini cavallereschi. Secoli dopo, ai primi del 1600, alcuni montalbanesi aiutarono marinai egiziani e in cambio ricevettero una scultura e le reliquie di S. Maurizio. Durante il trasporto delle reliquie in paese, sembra che il santo esaudì la richiesta di far dono della pioggia per porre fine ad un lungo periodo di siccità. Così i montalbanesi proclamarono patrono del paese S. Maurizio al posto di S. Giovanni Battista. E’ nota infatti, in tempo di siccità, la processione di S. Maurizio alla cosiddetta quercia, luogo posto a circa due chilometri dall’abitato, dove il popolo portava la statua del santo da epoca immemorabile, sperando così di ottenere la desiderata pioggia. 

In fondo alle navate laterali sono state realizzate la Cappella del Santissimo e la Cappella del Sacro Cuore.
Nel transetto, alla sinistra della porta principale, venne realizzata la Cappella del Crocifisso. Qui vennero sepolti tre vescovi di Tricarico: Antonio De Capriuli, Roberto De Robertis e Gaspare Toralto, morirono a Montalbano rispettivamente nel 1585, nel 1624 e nel 1680.
Sui sepolcri dei tre vescovi furono posti i loro stemmi in stucco.

Nella Chiesa Madre c’è anche un altro stemma e questo apparteneva all’ordine maltese. Infatti Prospero Rondinelli, nel suo libro, scrisse che l’altare in alto era ornato dallo stemma dell’ordine maltese contenente quelli di famiglia e del vescovo Mansi; ma oggi questo stemma è stato spostato sopra una nicchia che contiene la statua di S. Giuseppe con il Bambino in braccio, situata a destra della porta principale della Chiesa.
Ci sono anche una scultura lignea di S. Nicola della seconda metà del XVII secolo; l’organo a canne settecentesco restaurato di recente così come è stata restaurata anche la cupola del 1400.

lunedì 15 luglio 2013

Risorgimento lucano. 10. Avigliano per l'Unità d'Italia: il 1848

L’apporto del Mezzogiorno d’Italia nel 1848 fu cruciale: l’associazionismo meridionale era fortemente radicato nella vita sociale e amministrativa di molte realtà, influenzando in maniera positiva lo sviluppo di idee portanti.
Quello che accadde a partire dal mese di gennaio innescò un effetto trascinatore in tutto il Regno. Il voltafaccia ferdinandeo del 15 maggio impattò contro una popolazione già riunita in associazioni osteggianti idee costituzionali moderate e radicali, in alcuni casi con tendenze radicali indipendentiste. Le proteste non ebbero luogo solo a Napoli. La Calabria divenne il vero nucleo insurrezionale, tanto da formare un governo provvisorio in giugno, mentre la Basilicata, in questo periodo, si caratterizzò per la presenza di movimenti associazionistici contraddistinti da un programma democratico di notevole impatto. Basti pensare al fatto che il gallicchiese Giambattista Robertella, giunto a Corleto nel mese di giugno del 1848, organizzava un gruppo armato con l’intento di spostarsi su Potenza per fare causa comune con il governo provvisorio e difendere l’imbocco sul Marmo. Il Robertella sfruttava propizie argomentazioni per la sua causa: sosteneva che già in molti e in particolare da Avigliano, con «diverse centinaia» di insorti, si fossero spostati nel capoluogo.
Eppure, Avigliano fu, di fatto, “frenata” dalla presenza di un “grande vecchio” dei gloriosi anni napoleonici, quel Giulio Corbo che, dottore in utroque jure, aveva partecipato come «commissario organizzatore» e costituito la locale municipalità repubblicana. Ritornato in patria nel Decennio napoleonico, era stato incluso tra i 304 eleggibili al Parlamento Nazionale Seggio dei Possidenti e, successivamente, chiamato a far parte del Collegio Elettorale della Basilicata. Presidente del Consiglio Provinciale di Basilicata, anche dopo la restaurazione mantenne la carica di consigliere provinciale e fu annoverato tra gli esponenti di spicco della massoneria locale, aderendo anche alla Carboneria e partecipando alla rivoluzione del 1820-21. Dopo quella esperienza, ripiegò nella gestione delle tenute dei Corbo, divenendo una delle espressioni più convincenti di borghesia agraria innovativa della Basilicata, al punto che, nel 1846, Corbo ospitò nella tenuta di Iscalunga, tra Avigliano e Atella, il re Ferdinando II, che, in quella occasione conferì a Giulio il titolo di cavaliere trasmissibile agli eredi.
Nel marzo 1848, sebbene avesse aderito al movimento liberale, assunse una posizione in netto contrasto con il programma del Circolo Costituzionale Lucano. Regio commissario organizzatore della Provincia di Basilicata nel 1848, fu inviato in vari centri abitati del Melfese per indurre quelle popolazioni a rimanere fedeli al sovrano e a non seguire le direttive democratiche che incitavano i contadini alla occupazione delle terre. Con decreto del 13 maggio 1848, fu chiamato a far parte della Camera dei Pari. Ovviamente, la pluralità di esperienza e la qualità del vissuto del Corbo evidenziano un profilo complesso e variegato di una personalità che attraversa tutto il periodo risorgimentale, eccezion fatta per l’epilogo, con posizioni variamente modulate, collocate in contesti variegati, carichi di significanze peculiari e non riconducibili a semplificazioni. In altri termini, la parabola di vita di Giulio Corbo evidenzia la non linearità dei processi di cultura e pratica politica dei ceti dirigenti locali, a prima vista finanche contraddittori.
Sta di fatto che il grande sogno costituzionale terminò in un modo che allo stesso Corbo (che sarebbe morto nel 1856) ricordava, forse, i tragici giorni di cinquant’anni prima: il numero degli imputati per reati politici in Basilicata raggiunse quota 1116, con i processi conclusisi nel luglio del 1852.

giovedì 11 luglio 2013

Irsina. 1. Inquadramento generale (Eufemia Smaldone)

Montepeloso è una città vescovile in provincia di Basilicata esente da metropolitano. È sotto il grado 41 di latitudine, e 34 di longitudine. Dista a Matera miglia 18, da Gravina 8, dall’Adriatico 40, ed altrettanti dal Jonio. Si vuole da taluni esser stata un tempo situata in quel tenimento, che appellano Yrso. Irsi fu un paese abitato non molto lungi da Montepeloso, e nel luogo tra Grassano, è detta citta appellato Santangelo vi si ritrovò un’antica greca iscrizione contenendo un voto, che facea il popolo Irsino a Giove (I). non si può però accertare il leggitore se veramente questa città se veramente questa città fosse surta dalla distruzione dell’accennata antica Irsi, o quando mutato avesse ancor sito, e denominazione, onde poi dal luogo cretoso, in cui oggi si vede, detta l’avessero Montepilloso, e finalmente Montepeloso, o Montepiloso.
Nell’anno 988 fu tutta incendiata, come rileviamo dal cronaco Cavese, e vi si aggiugne di esser stata immediatamente meglio rifatta dal Principe Giovanni, su quel monte dove sono gli Agostiniani, nel 1010 ebbesi una battaglia tra i Greci, e i Saraceni comandati da Ismaele. Nel codice Nap. del Duca d’Andria si legge: Ismael præliatus est cum Græcis in montepelusio, e vi cadde morto il Greco Duca Pasiano. Il cronista barese nota questo fatto nel 1011, ma altri con più critica nel suddivisato anno 1010. Questa città fu da Roberto Guiscardi, il quale per la resistenza fattagli dagli abitanti vi lasciò Goffredo conte di Conversano, che era suo nipote.
La situazione di questa città è in luogo elevato, è circondata da muri con delle porte e l’aria vi si respira salubre. Il territorio confina da settentrione col feudo di Monteserico, da levante con Gravina, e colle difese del possessor di Grottole, come anche da levante, e da mezzogiorno a ponente col territorio di Grassano e difese di Tricarico, di Tolve ec. Tutta l’estensione è di circa 65000 moggi. Un quarto di miglio distante da essa città sonovi due fonti di buona, ed abbondante acqua. Vi passano due fiumi uno da settentrione a levante, che appellano Vasento-piccolo, o Basentello, l’altro da ponente a mezzogiorno ch’è il Bradano, a cui si unisce la Lavetta. No vi mancano poi dappertutto altre sorgive di acqua.
Le produzioni consistono in grano, granone, legumi, in abbondanza. Gli ortaggi vi riescono anche buoni, il vino che però non è spregevole, se ne raccoglie tanto che basta all’uso civico. Ne’ luoghi macchiosi evvi della caccia di caprj, volpi, lupi, e non vi mancano starne, pernici, mallardi, e più altre specie di uccelli. I suddetti fiumi dan pure dei pesci.
Sul monte veggonsi gli avanzi di un castello opera de’ mezzi tempi.
Gli abitanti ascendono a 5000 in circa, e sono numerati per fuochi 107, insieme col suo borgo, ma le sue 36 ville fanno un solo corpo colla città stessa. Quindi una così unita popolazione nel 1532 fu tassata per fuochi 964, nel 1545 per 1327, nel 1561 per 1505, nel 1595 per 1744, nel 1648 per lo stesso numero, e nel 1669 per 1662. Nell’ultima del 1737 per 982.
Il loro commercio consiste nello smaltimento de’ prodotti del suolo, e di formaggi, avendo anche industria di animali. Tutto il territorio è diviso in IV parti, comprendendo ciascuno un numero di dette ville.
Questa città insieme al ducato di Civita di Penne fu conceduta dall’imperatore Carlo V2 ad Alessandro de’ Medici, e poi alla famosa Margherita d’Austria4 sua figlia. Si è più volte accennato come i beni Farnesiani fossero pervenuti al nostro Sovrano, ond’è del tutto inutile di qui ripetere.
(fonti: Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Napoli, Simoniana, 1797-1805, vol. 2, pp. 116-123)
Abbiamo a nostra disposizione altre fonti che ci aiutano a capire l’andamento della popolazione di Montepeloso, come ad esempio:
Dalla “Descrittione del Regno di Napoli”, a p. 131, Mazzella ci informa che nel 1601 a Montepeluso c’erano 586 fuochi;
Enrico Bacco, invece, nella “Nuova, e perfettissima Descrittione del Regno di Napoli”, a p. 112, ci dice che c’erano 911 fuochi;
Ottavio Beltrano nella “Breve Descrittione del Regno di Napoli”  afferma che, nel 1640 i fuochi montepelosani erano, ancora una volta, 911;
Pacichelli nel “Regno di Napoli in prospettiva”, ci parla per la prima volta, di abitanti e non di fuochi, e in particolare la popolazione di Montepeloso era di 3125 abitanti (1703);
Nel 1736, Carlo di Borbone dispone un’inchiesta sulle condizione della regione Basilicata, e Bernardo Tanucci incarica Rodrigo Maria Gaudioso, avvocato fiscale presso l’Udienza di Matera, di raccogliere dati e notizie per una relazione sulle condizioni economiche e sociali su questa regione. Da tale relazione viene fuori che la popolazione montepelosana era di 3071 abitanti;
Giuseppe Maria Alfano nella “Istorica descrizione del Regno di Napoli” (1798), a p. 72, afferma che Montepeloso è sede Vescovile, Marchesato della casa del Riario, d’aria buona, e di popolazione 5021.


Irsina, un tempo Montepeloso, sorge su un altopiano a 550 m. sul l.m. ed il suo agro si estende per ben 27.000 ettari. A seguito della forte emigrazione degli anni scorsi, soprattutto per ragioni di lavoro, la popolazione attuale è scesa a circa 5.000 abitanti.
Verso il 1200 divenne Terra della Contea di Andria e passò così dal dominio dei Normanni a quello degli Svevi, anzi fu uno dei possessi preferiti da Federico II tanto “che ottenne da lui molti miglioramenti, quali furono una solida cinta di mura intorno alla città ed un ben munito castello che poi donò a S. Francesco d’Assisi verso il 1224”. Ma il Santo qui non venne mai.
Con la morte dell’imperatore Federico II5, Montepeloso divenne Marchesato a sé sotto la signoria di Manfredi di Svezia; nel 1307 passò nelle mani di Bertrando Del Balzo.
Dallo storico E. Palermo, sappiamo che, Montepeloso fece parte della dote della regina Giovanna, moglie di Ferdinando I d’Aragona e nel 1483 Pirro Del Balzo comprò dal re Ferdinando la città di Altamura, nel cui principato si trovava anche Montepeloso. Pirro, coinvolto nella congiura dei Baroni nel 1487, fu condannato a morte, i suoi possessi furono confiscati e la signoria di Montepeloso passò a Federico d’Aragona6.
Il 21 dicembre 1506, essendo Re di Napoli Federico il Cattolico, questi fece dono ad Onorato Gaetani d’Aragona di Anagni della Città di Altamura e di Montepeloso, divenuta nel frattempo Baronia.
Nel 1548 signore di Montepeloso fu Scipione Gaetani, ma egli venne presto a trovarsi in contrasto con i cittadini per i suoi abusi tanto che questi furono costretti a ricorrere al Sacro Regio Consiglio del Vicerè di Napoli.
Dopo Scipione, sino alla fine del feudalesimo, i successori non ebbero altro titolo che quello di “Utili Signori di Montepeloso”. Nel 1580 a Scipione successe il figlio don Luigi che, per soddisfare certi debiti, pensò di vendere la città con tutti i suoi beni per 122 mila ducati a Gerolamo Grimaldi, di nobile e di distinta famiglia genovese. Il nuovo signore morì nel 1610 senza eredi maschi e perciò il feudo passò nelle mani del fratello Francesco e alla nipote Maria Doria Grimaldi.
In ordine di tempo ai Grimaldi successero i De Guevara, i Riario, gli Sforza, i Nugent.
L’ultima feudataria fu la contessina Margherita Nugent nata nel 1891, discendente di quel Maresciallo Nugent austriaco che aveva combattuto nell’esercito imperiale. Ella, si adoperò molto per la valorizzazione ed il restauro degli affreschi di scuola giottesca scoperti nel 1929 nella cripta della chiesa di S. Francesco in Irsina. Nubile, morì senza lasciare eredi il 31 gennaio 1954. Le sue proprietà terriere furono scorporate dall’Ente per la Riforma Fondiaria di Puglia e Basilicata e distribuite ai nostri contadini.
L’antico nome Montepeloso venne cambiato con quello attuale con una delibera del Consiglio comunale del 6 febbraio 1895.

martedì 9 luglio 2013

Paesi lucani. 8. Pisticci: Territorio e struttura urbana (Carmen Cazzetta)

I primi insediamenti in territorio di Pisticci risalgono al X secolo a.C., ad opera degli Enotri, e sono testimoniati da diverse necropoli.
 
Successivamente l'area venne colonizzata dai Greci e Pisticci divenne un importante centro del territorio di Metaponto. Tra il V e il IV secolo a.C. vi visse e operò il cosiddetto Pittore di Pisticci, primo ceramografo italiota ad aver adottato la produzione di vasi a figure rosse. Successivamente alla sconfitta di Taranto, Pisticci passò sotto la dominazione romana e diventò un importante centro agricolo. Intorno all'anno 1000 i Normanni costituirono il feudo di Pisticci, posseduto in successione dai Sanseverino, dagli Spinelli, dagli Acquara e dai De Cardenas. Sempre nello stesso periodo, i Benedettini fondarono il cenobio di Santa Maria del Casale, poco distante dall'abitato, sui resti di un antico insediamento basiliano.
Nel 1565 in località Scannaturchi (così nominata proprio dopo l'evento) si combatte una battaglia tra Pirati Saraceni e un manipolo eterogeneo di pisticcesi, professionisti, chierici e contadini. In questi decenni le invasioni dei pirati sono molto frequenti e per questo nel territorio metapontino viene costruita una rete di torri di avvistamento. Nel Seicento l'abitato contava circa 6000 abitanti e comprendeva i rioni Terravecchia, Santa Maria dello Rito (oggi Loreto), Osannale, Santa Maria del Purgatorio e Casalnuovo. La notte del 9 febbraio 1688, a seguito di un'abbondante nevicata, una frana di enormi proporzioni fece sprofondare i rioni Casalnuovo e Purgatorio, causando circa 400 morti. Dopo la frana la popolazione rifiutò l'offerta del conte De Cardenas, sotto la quale si nascondeva una grossa speculazione, di spostare l'abitato più a valle, dove sarebbero state costruite nuove case per gli abitanti, che in cambio avrebbero dovuto pagare tasse supplementari al conte. Sul terreno della frana furono quindi costruite 200 casette in filari, tutte uguali (foto 1), bianche, a fronte cuspidata. Il nuovo rione prese significativamente il nome di Dirupo, a ricordo della frana.
Il territorio di Pisticci si estende per 23.000 ettari ed è compreso tra i fiumi Basento, a Est, e Cavone, a Ovest, che separano il territorio pisticcese rispettivamente dai comuni di Bernalda e Montalbano Jonico. 
Le tre colline su cui sorge il centro storico, Serra Cipolla, San Francesco e Monte Como, sono situate nella parte occidentale, dove il terreno è prevalentemente argilloso e i versanti delle colline sono caratterizzati da profonde scanalature, i calanchi.
A causa della natura del terreno, Pisticci è stata spesso interessata da fenomeni di dissesto idrogeologico.
Nella parte orientale del territorio invece, si estende un altopiano che digrada dolcemente verso la pianura metapontina e verso gli 8 km di costa, limite comunale sul mar Jonio.
L'ipotesi meno probabile vuole che l'etimologia del nome Pisticci derivi dal greco Pistoikos, luogo fedele (da pistis, fede, e oikos, luogo). Infatti, durante la guerra tra Taranto e Roma nel 291 a.C., Pisticci fu l'unica città metapontina che rimase fedele a Taranto, da qui il nome di luogo fedele, poi latinizzatosi in Pisticium.
L'altra ipotesi è che il nome derivasse dal tardo latino Pesticium o dal basso franco Pestiz che significano terreno pascolativo. Quest'ipotesi è tuttavia la più accreditata al momento.
La M e la P presenti sullo stemma cittadino (foto 2), ricordano il fatto che Pisticci gravitasse nell’area di influenza di Metaponto e anche la spiga di grano ne è un simbolo: infatti la spiga era il simbolo stesso di Metaponto ed era effigiata sulle monete della colonia greca. Il primo stemma cittadino era costituito dalla sola spiga ed è situato sul basamento dell’altare della chiesetta rurale di San Vito.
Nell'ambito delle trasformazioni urbane cinquecentesche, la nuova realtà sociale svolge un ruolo determinante.
 Il centro della vita comunale a Pisticci continuò ad essere il largo spazio antistante la Chiesa Madre .Uno dei fattori decisivi per la crescita urbana del 500 fu la nascita delle nuove categorie sociali come quello dell’attuale Piazza Plebiscito ,all’epoca Piazza Grande determinando l’ampliamento delle città.
 L’evento che assume una importanza fondamentale è l’edificazione del Convento dei Frati Francescani,fuori dalle mura delle città. 
Gli sfruttamenti effettuati dal casato dei Sanseverino sul feudo di Pisticci ebbero fine nel 1553,quando la famiglia venne privata di tutti i privilegi e dei beni posseduti ,cosi il destino del feudo di Pisticci fu legato alle varie famiglie baronali . Nello stesso 1553,si registra la vendetta del feudo di Pisticci da parte della Regia Corte di Napoli al Conte di Seminara Don Pietro Antonio Spinelli il cui possesso durò 4 anni.
Nel 1557, la città fu acquistata dal Barone di Acquara Don Matteo Còmite,il quale si prodigò ad emanare un elenco di privilegi, le cosiddette Gratie Et Concessioni fatte all’università di Pisticci. Ne venne fuori tra l’università e il feudatario una grossa avvertenza,che portò all’omicidio del Dr.Fisico D.Giovanni Pietro Russo ad opera di sicari del Feudatario nei pressi del Basento. Il Còmite venne arrestato per omicidio e condannato. Il Còmite, con un atto del 7 luglio 1567 e così prese possesso delle città e nel 1573 effettuò la cessione del Feudo che fu preso in fitto dall'università fino al 1593.
Nello stesso anno la città fu acquistata da Don Bernardino De Cardenas, Marchese di Laino e Conte di Acerra.
La famiglia De Cardenas, di origine spagnola, dei Conti di Acerra compare nella vita e nella storia di Pisticci per oltre due secoli: Pisticci visse una situazione più serena generata dalla devozione del nuovo signore stimato e benvoluto dai sudditi pisticcesi ,il buon governo dei De Cardenas portò prosperità nella città di Pisticci.
Con la Costituzione della Repubblica napoletana, la famiglia De Cardenas scomparve sia dalle vicende politiche che dalla vita pisticcese: la stirpe si estinse con Don Ferdinando che fu l’ultimo feudatario di Pisticci.

I grandi palazzi nobili hanno affermato il prestigio della classe. All’interno di uno scenario urbano costituito dalle cosidette ‘casedde’ a schiera ,emergono numerosi esempi di residenze appartenenti alle famiglie più facoltose .
Furono edificati nei secoli XVII e XVIII, come i palazzi Santissimo, Giannantonio, Cascino-Rogges, Latronico, altre residenze già esistenti sin dai secoli precedenti come il palazzo De Franco.
I palazzi signorili si distinguono, oltre che per le dimensioni e per la ricercatezza archittetonica. Gli ambienti si dispongono qualche volta , intorno a corti o a giardini interni e sono dotati di cappella privata oltre le cantine e cisterne per l’acqua .La loro collocazione nel contesto urbano avviene in quei punti dove viene ostentata la supremazia sociale e del potere della famiglia cui appartengono.
Palazzo Giannantonio (foto 3): Edificato sul finire del 600 di proprietà della famiglia De Franco,si eleva alle spalle del convento Francescano ,in gran parte circondata da terreni coltivati ,da cui dominava la vista dell’intero territorio verso est , fino al mare. Articolati intorno ad un piccolo cortile di ingresso (si accede attraverso un portale)con un pozzo sormontato da un arco poggiante su due massicci pilastri,le stanze si dispongono su due piani .Il palazzo si inserisce nell’ambiente urbano con una posizione ruotata dall’antico largo del mercato (attuale Piazza dei Caduti). Nella fitta trama urbana di Pisticci, non sempre accade che le grandi residenze signorili abbiano la possibilità di prospettare su sezioni stradali che in effetti molti dei palazzi sei-settecenteschi si inseriscono nel nucleo della città antica. Lungo il percorso degli stretti vicoli tortuosi,le residenze signorili appaiono fra le ‘casedde’(le casette bianche) di rione dirupo. 
Palazzo De Franco (foto 4): attiguo alla chiesetta dell’Annunziata,una delle più interessanti costruzioni che occupa gran parte di un isolato nel cuore del borgo medievale,e Casa Sion inserita nel blocco delle schiere murali. Addossato alla porta nord della città(porta della piazzolla),il cui ingresso ,con un portico di fattura rinascimentale ,che nel marmo ,sotto lo stemma di famiglia ,reca la data 1768.L’edificio è stato manomesso e deturpato sia all’interno che all’esterno.All’interno c’erano belle porte di stile barocco .
Foto: Portale con bugne a raggiera decorate e volute laterali del Palazzo De Franco in Via Mazzini.





Palazzo Cascino-Rogges (foto 5): antica famiglia potente e rinomata. Si sviluppa lungo la via che da Piazza Plebiscito,conduce alla Chiesa Madre .Gli ambienti del piano terreno ,nel loro sistema ,denunciano l’accorpamento di una serie di unità edilizie a schiera della proprietà medievale.
Foto 5: palazzo Rogges

La Torre di Bruni (foto 6): Quasi vicina a casa Rogges, si incontra la residenza signorile appartenuta alla famiglia Bruni,il portale all’ingresso arcuato e nel mezzo del fabbricato si inserisce un’antica Torre a forma rotonda ,probabilmente risale ai tempi della potenza di Metaponto.
Foto 6: Torre Bruni
Palazzo Santissimo (foto7): situato nel quartiere dell’osannale,presenta un carattere architettonico che si allontana dal tipico palazzo sei-settecentesco. Questo palazzo è simile al palazzo Cramanda (ormai in ruderi)situato alle spalle della chiesa Immacolata Concezione.
Foto 7: Palazzo Santissimo














Palazzo Minaja (foto: residenza signorile che allo stato attuale si trova inserito,con relativa cappella privata(chiesa di S. Caterina) risale XVII sec., quando la zona non era stata ancora raggiunta dall’urbanizzazione. Essa doveva essere la residenza della campagna della famiglia Minaja che possedeva molti terreni. Lo stemma di famiglia riporta quattro torri ed al centro una testa di moro ,con su un’aquila bicipite . Tale stemma era dipinto sul soffitto della chiesetta di Santa Caterina ,chiesa della famiglia.

Foto 8: palazzo Minnaja e stemma







mercoledì 3 luglio 2013

L'antica Lucania. 7. Il mito di Melanippe e Metaponto

Nettuno sedusse la bellissima Melanippe, figlia di Desmonte oppure, secondo altri poeti, di Eolo, e generò da lei due figli. Quando Desmonte lo seppe, accecò la figlia e la rinchiuse in prigione; per di più ordinò che le venisse dato poco da mangiare e da bere e che i bambini fossero gettati in pasto alla fiere. E così fu fatto; ma poi arrivò una vacca da latte e offrì ai piccoli le mammelle. Quando i pastori lo videro, presero i bambini con loro per allevarli. 
Nel frattempo, Metaponto re d’Icaria, chiese alla moglie Teano di partorirgli dei figli, per poter lasciare loro il regno. Teano, spaventata, fece chiamare i pastori perché le trovassero un bambino da presentare al re; quelli le mandarono i due che avevano trovato e Teano fece credere al marito che fossero suoi.
In seguito Teano ebbe due figli da Metaponto; ma dato che il re preferiva i primi due, perché erano bellissimi, Teano volle sbarazzarsene, per riservare il regno ai figli che aveva partorito lei stessa. Giunse il giorno in cui Metaponto soleva andare a sacrificare a Diana Metapontina. Teano colse l’occasione per svelare ai suoi figli che i loro presunti fratelli non erano tali: “Perciò, quando andranno a caccia, uccideteli a pugnalate”. Quelli salirono dunque sul monte, seguendo le esortazioni della madre, e cominciarono a combattere, ma con l’aiuto del dio loro padre i figli di Nettuno vinsero ed uccisero i figli di Metaponto; quando i corpi di questi ultimi vennero riportati alla reggia, Teano si uccise con un coltello da caccia. I due vendicatori, Beoto ed Eolo, si rifugiarono presso i pastori che li avevano allevati; là Nettuno rivelò loro che erano suoi figli e che la loro madre era tenuta prigioniera. I due si precipitarono allora da Desmonte, lo uccisero e liberarono la madre dalla sua prigione; e Nettuno le rese la vista. In seguito i figli la portarono in Icaria e svelarono al re di Metaponto la perfidia di Teano. Metaponto sposò allora Melanippe e ne adottò i due figli, che poi fondarono nella Propontide due città che chiamarono Beozia ed Etolia, dai loro rispettivi nomi.

Da IGINO, Fabulae, 186

martedì 2 luglio 2013

L'antica Lucania. 6. Siris (G. Giannelli-P. Zancani Montuoro-D. Adamesteanu)

1. Siris era una colonia greca della Magna Grecia, fondata, come generalmente si crede, verso la metà del sec. VII a. C., alla foce del fiume omonimo (Siris, poi Sinis, oggi Sinni), sulla costa lucana, fra Sibari e Metaponto. 
Il territorio aveva prima appartenuto al popolo del Coni: dalla nuova città prese il nome di Siritide. Celebri scrittori antichi, come Aristotele e Timeo, ne attribuivano la fondazione ad un gruppo di profughi da Troia, che avrebbero portato con loro il Palladio ed il culto di Atena Iliade; altre fonti tutte trasmesse a noi da Strabone e da Ateneo (XII, 523 c), l'attribuiscono invece ai Rodi ed altre infine, che sembrano più attendibili, ai Colofoni, fuggiti dalla patria quando fu invasa dai Lidi di Gige (circa 675 a. C,). Varî indizî fanno sospettare la presenza di un forte elemento focese fra i coloni di Siri. Anche è probabile che la data di fondazione della città debba farsi risalire assai più addietro, verso la metà del sec. VIII. 
La città divenne presto fiorente, grazie alla fertilità della vallata del Sinni, la cui bellezza e amenità fu celebrata nei versi di Archiloco di Paro: mantenne con l'Oriente mediterraneo intensi commerci. 
La ricchezza e la potenza di Siri risvegliò i sospetti dei Metapontini e la cupidigia di Sibari: onde le due città, unitesi in alleanza e aggiunti alla loro lega i Crotoniati, assalirono Siri e la distrussero (circa 530-525 a. C.). Gli abitanti superstiti vennero trasferiti a Metaponto, che rimase padrona di gran parte della Siritide: la porzione meridionale di questa venne invece in mano dei Sibariti e, dopo la distruzione di Sibari, di Crotone. Più tardi Atene accampò diritti sul territorio della città: e su di essi s'imperniò probabilmente la lunga contesa che arse fra Taranto e Turi, subito dopo la fondazione di quest'ultima città. 
La guerra finì nel 432 a. c. con la vittoria di Taranto, che ottenne il dominio della Siritide, concedendo però agli antichi abitanti di restare ad abitarvi: in esso i Tarantini fondarono la nuova colonia di Eraclea; Siri continuò a esistere come porto di essa.

2. Esclusa l'attribuzione a Siris delle monete di tipo acheo, che le erano state assegnate, non vi è più motivo per sospettare né della cronologia né delle caratteristiche ioniche, riferite dalla tradizione antica e molto discusse dalla critica moderna. Esse sono anzi validamente confermate da un peso fittile da telaio proveniente dall'area sirite (Policoro) con il nome del proprietario Isodike iscritto nel dialetto e nell'alfabeto ionico più arcaico.
Il lusso di Siris fu proverbiale quanto quello di Sibari ed è deplorevole che nulla oggi sappiamo della sua raffinata civiltà: forse un riflesso se ne può sorprendere nei più antichi monumenti di Poseidonia e dello Heraion sul Sele. Certo non possono aver rapporto con la città perita in età arcaica né gli spallacci con amazzonomachia ad altorilievo, spesso menzionati come bronzi di S. e che sono invece mirabili prodotti del maturo IV sec., né le tombe ed i ruderi ellenistici affiorati nei lavori di bonifica sulla riva sinistra del fiume Sinni, presso Policoro: forse nelle murature relativamente tarde è compreso qualche blocco arcaico.
Che Siris sia stata preceduta o seguita da una città chiamata Polieion Πολίειον) è leggenda spiegabile con l'uso contemporaneo di due nomi, l'uno più diffuso, tratto da quello del fiume e l'altro più solenne, forse ufficiale, ma meno popolare.

3. Diverse fonti lasciano intendere che almeno la prima fase di Siris si deve ricercare proprio verso la foce del fiume, dove, d'altronde, come è stato ipotizzato, doveva trovarsi il porto, e dove alami studiosi conducono le loro ricerche. Il sito di una vera pòlis si trova sulla lunga collina di Policoro, in mezzo a una ricca pianura. Proprio la ricchezza di queste terre aveva richiamato anche le popolazioni indigene - i Choni - che avevano formato grandi e piccoli insediamenti intorno alla collina di Policoro e di S. Maria d'Anglona. Ai piedi di queste colline si sono formate le necropoli indigene della I fase dell'Età del Ferro, come quelle di Valle Sorigliano, con diverse presenze orientali nei corredi di produzione locale, mentre sui pendii di S. Maria d'Anglona i recenti scavi hanno messo in luce qualche tomba con oggetti greci arcaici. Anche queste zone, considerate dalle fonti antiche (Strabone, VI, I, 10) κτίσις των 'Ροδίων, facevano parte di quella Siritide del VII sec. a.C. cantata da Archiloco. Sulla collina di Policoro i primi segni di presenza greco-orientale e insulare sono della fine dell'VIII-inizî del VII sec. a.C.: questi appaiono più densi sulla punta orientale, nella zona chiamata del Castello. Gli ultimi scavi e ricerche effettuati hanno evidenziato che la collina, con un circuito di c.a 4 km, era difesa da una fortificazione in mattoni crudi, larga m 1,80-2, oggi conservata in altezza in qualche parte fino ami. Assai probabilmente, verso la metà del VII sec., l'intera collina venne stabilmente occupata e fortificata dai Colofoni rifugiatisi in questa zona già conosciuta attraverso informazioni fornite da gente della stessa origine microasiatica, arrivata ancora prima sulla costa ionica per formare empòria come quello di Incoronata. Mentre la punta orientale era difesa già prima dell'arrivo dei Colofoni, la fortificazione centrale e occidentale può essere attribuita a questi ultimi.
Anche le poche abitazioni finora conosciute risultano costruite con mattoni crudi su uno zoccolo in pietrame irregolare, come risulta nell'area della collina e ancora più a S. La loro pianta è quasi sempre rettangolare e, come appare nel caso delle tracce rinvenute nell'area a S del Castello (Giardino murato), erano costruite anche in legno e formate solo da uno o due ambienti. La loro presenza in aree ancora più lontane dalla collina indica una pòlis formata da diverse kòmai.
Le aree sacre di S. sono distribuite all'interno e all'esterno dell'area fortificata. Mentre sulla collina è stato trovato sporadicamente qualche frammento di terrecotte architettoniche arcaiche, sul pendio della vallata meridionale sono stati messi in luce un tempio e un santuario di Demetra, quest'ultimo racchiudente anche qualche traccia di piccoli edifici (naìskoi) decorati con terrecotte architettoniche del VI sec. a.C. Il tempio, molto simile al tempio C di Metaponto e, inizialmente, anche a un altro di S. Biagio, era decorato con un fregio fittile che ha conosciuto una larga diffusione a Metaponto e nel suo territorio, fino a Sibari, Posidonia e Serra di Vaglio.
Tanto nell'area del Santuario di Demetra che nell'area del tempio vi sono chiare testimonianze che la vita di Siris è continuata dalla fine dell'VIII e dai primi anni del VII sec. a.C. fino alla fine del VI sec. a.C.: vasi, statuette, terrecotte architettoniche e bronzi s'inquadrano in questo lungo periodo. Qualche altro documento (skỳphoi del tipo Bloesch C) scende fino al primo quarto del V sec. a.C., come dimostrano anche le necropoli.
La fase achea della metà del VII sec. a.C. a S. non è ben definita attraverso i rinvenimenti archeologici finora conosciuti in quest'area. Una cesura molto evidente è soltanto quella databile tra il primo e il secondo venticinquennio del V sec. a.C.
Tanto le necropoli quanto le stipi votive e i diversi rinvenimenti di vasi, statuette e bronzi dimostrano chiaramente quanto vasta sia stata l'espansione commerciale di Siris lungo la fascia costiera e i fiumi Agri e Sinni. L'espansione sulla costa è documentata dall'emporio di Incoronata, mentre lungo i due fiumi vicini alla collina di Policoro le testimonianze si ritrovano nelle necropoli di Latronico, Roccanova, Alianello e Chiaromonte. Gli oggetti rinvenuti sono d'origine insulare e greco-orientale; in altri casi si tratta di riuscite imitazioni locali di tali produzioni. I vasi dell'Orientalizzante antico e qualche figura di animale in bronzo sono i migliori esempi di produzione sirita, in cui i cavalli affrontati costituiscono uno dei motivi decorativi più apprezzati dai maestri locali.

FONTE: 1. Voce di G. GIANNELLI in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1936; 2. Voce di P. ZANCANI MONTUORO in Enciclopedia dell'Arte Antica, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1966; 3. Voce di D. ADAMESTEANU in Enciclopedia dell'Arte Antica. II Supplemento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1997.

lunedì 1 luglio 2013

L'antica Lucania. 5. Metaponto (D. Adamesteanu)

Colonia achea, fondata già nei primi anni del VII sec. a. C., nella ricca pianura tra il Bradano ed il Basento, Metaponto era a poca distanza, allora, dalla riva del mare, con cui era in contatto attraverso un canale che dalla città conduceva al porto sistemato entroterra.
Le fasi di sviluppo della città, in base ai risultati di scavo e ricerche aerofotografiche, sono tre: il primo insediamento è riconoscibile sul lato occidentale dove, in antico, il terreno si alzava, anche se solo di qualche metro, sul livello del mare; la seconda fase, da fissare intorno al 500 a. C., si estende dal primo nucleo, per quasi un km, ad oriente, verso il mare, con una pianta ortogonale per strigas già precostituita nella prima fase; una terza fase, infine, rappresenta un restringimento di tutta la città ad un castrum costruito da Annibale, nella parte orientale di Metaponto, intorno al 211 a. C., quando il resto della città era già quasi abbandonato.
Le grandi aree sacre sono, finora, tre, mentre altre zone sacre minori possono essere postulate in diversi altri punti ove sono state individuate delle favissae. Due di queste aree si trovano lontane dalla città, ma pur esse inquadrate in quella vasta divisione del suo territorio che è apparsa regolare sia nello studio aerofotografico sia durante i recenti scavi e ricerche e che risale al primo venticinquennio del VI sec. a. C.
Questi due ultimi santuarî, fuori città, sono dedicati a Hera (Tavole Palatine) ed a Zeus Aglàios (S. Biagio della Venella).
Santuario di Apollo Liceo. - Nella prima fase della città, questo santuario si trovava fuori le mura orientali e soltanto verso il 500 a. C. esso è incorporato nel grande allargamento della colonia.
In seguito ai recenti scavi è stato possibile trovare una parte della trincea appartenente al tempio primitivo dedicato ad Apollo cui è seguita la costruzione, verso il 530 a. C., del nuovo tempio le cui dimensioni massime, in fondazione, sono m 22,90 × 52,85. A questo monumento appartengono le terrecotte architettoniche disperse ora a Napoli, Reggio Calabria, Parigi e Metaponto. Sempre in seguito agli ultimi scavi è stato possibile stabilire che esso ha avuto una serie di restauri che hanno investito una parte delle fondazioni dei lati corti verso il 500-480 a. C. Nello stesso tempo i due frontoni sono stati decorati con sculture ad alto rilievo, in pietra tenera e marmo con motivi di forte ispirazione attica. Oltre alla stipe votiva occidentale ne è stata individuata anche un'altra sul lato orientale.
Sul lato destro del tempio di Apollo è stato messo in luce un altro edificio di minori dimensioni: m 19,90 × 41,80 nelle strutture del quale sono state adoperate molte colonne monolitiche, probabilinente appartenenti al tempio primitivo di Apollo. Questo nuovo edificio sacro è chiamato B, per differenziarlo dal tempio di Apollo, A, e da un altro edificio sacro, C, appena individuato nei recenti scavi sul lato meridionale dell'A. Mentre al B spetta una decorazione architettonica fittile quasi identica alla seconda fase dell'A ed un gruppo fittile dei Dioscuri, al C appartengono decine di frammenti di koùroi tardoarcaici ed elementi di un acrolito di cui si conserva la parte superiore del torso. La copertura del C è tutta in marmo e può essere datata intorno all'ultimo venticinquennio del V sec. a. C., non esclusi diversi rifacimenti in fondazione ed alzato. Sul lato settentrionale del B si possono supporre, in base al rinvenimento di antefisse fittili gorgoniche arcaiche e di antefisse raffiguranti la testa di Artemide-Bendis, altri due sacelli entrati a far parte del santuario di Apollo.
Tra la peristasi esterna e la cella del B sono state rinvenute, ben sistemate, oltre 150 di quelle pietre (ἀργοὶ λίθοι), di cui qualcuna recante la dedica ad Apollo Liceo, e che vanno intese nel senso accordato loro da Pausania (vii, 22, 4) e, in base alle numerose iscrizioni, databili entro la prima metà del VI ed il IV sec. a. C.
Santuario di Hera. - Fuori le mura, meglio conosciuto come tempio delle Tavole Palatine, conserva ancora dieci colonne sul lato N e cinque sul lato S e può essere datato intorno al 520 a. C.
È anch'esso un tempio dorico esastilo periptero, come il tempio di Apollo. Ultimi scavi e ricerche hanno permesso l'individuazione di altri sacelli arcaici sul lato settentrionale mentre sulla parte orientale è stata individuata la stipe votiva il cui contenuto (vasi e statuette) presuppone una datazione anteriore alla creazione del santuario.
Santuario di Zeus Aglàios. - Si trova anch'esso fuori le mura e precisamente a circa km 6, fondato, verso la fine del VI sec. a. C., sulla riva sinistra del fiume Bradano. Il santuario sorge in mezzo alle divisioni di terre con cui tutto il territorio della città è stato diviso tra il primo ed il secondo venticinquennio del VI sec. a. C. ed è in stretto rapporto con le uniche sorgenti di acqua potabile nelle immediate vicinanze della pòlis.
Intorno alle sorgenti è stato costruito un recinto (m 6 × 9) davanti al quale è stata aggiunta una vasca divisa in tre scomparti. La prima fase del recinto risale al periodo tardo-arcaico, in cui la parte superiore era decorata con terrecotte architettoniche, con grondaie leonine e cassette con meandro a rilievo dipinto.
Intorno alle sorgenti la vita inizia già nel periodo neolitico (Cultura di Serra d'Alto) e si prolunga fino all'arrivo degli Achei, quando nasce il santuario. Sui lati meridionale ed o4entale sono stati trovati numerosi vasi e statuette che possono essere datati dalla fine del VII fino agli inizî del III sec. a. C., il tutto dominato dalla produzione locale. Caratteristica è la produzione di statuette dedaliche e di vasi di imitazione protocorinzia. Interessante anche la produzione locale della ceramica attica a figure nere.
In base ad un cippo di confine, databile verso il 500 a. C., recante l'iscrizione DSΟΜ ΑΙΓΑSΟΜ il santuario può essere considerato dedicato a Zeus Aglàios.
Della massima importanza è la scuola artistica che si sviluppa a M. intorno al 500 a. C., ben individuata nelle sculture che ornavano i frontoni del tempio di Apollo e specialmente nei numerosi frammenti in pietra tenera ed in marmo rinvenuti sul lato settentrionale del C. Lo stesso si può dedurre anche dal rinvenimento dei numerosi bronzi figurati, presenti, specialmente, nella stipe votiva orientale dello stesso tempio, come un Kriophòros tardoarcaico. Accanto a questa documentazione sulle scuole locali prende posto la produzione fittile con i suoi vasi e statuette arcaiche, prodotti dalle numerosi fornaci che lavoravano ai margini del primo nucleo della città (punti 3.7.8 della pianta) quasi dalla fondazione della colonia fino alla fine del IV sec. a. C. A questa produzione locale vanno attribuite le statuette dedaliche, l'imitazione dei vasi protocorinzî rinvenuti in tutti i santuari e la produzione di vasi a figure nere, anch'essi presenti sia nei santuarî sia negli scarichi delle fornaci finora scavate.
Alla stessa produzione locale si aggiunge ora anche la serie di vasi classificati sotto il nome del Pittore di Amykos e del Pittore di Pisticci, frammenti dei quali sono stati rinvenuti contorti o non riusciti negli scarichi delle fornaci, che operavano specialmente nell'area n. 8 della pianta. Alle stesse fornaci dell'angolo NO del nucleo primitivo di Metaponto si deve anche la abbondante produzione di vasi geometrici penetrati profondamente non solo nel territorio vero e proprio della colonia ma anche più lontano, nella zona d'influenza, per una profondità di circa 100 km dalla costa. Ed è proprio a questa spinta rapida nell'interno che si deve in un breve lasso di tempo, il passaggio dei centri indigeni dalla fase di capanne protostoriche ad edifici - sacri o privati - di tipo greco, come a Ferrandina e Vaglio della Basilicata.
Con la sparizione del castro romano, nel II-III sec. d. C., si spegne completamente la vita di Metaponto, spenta però già agli inizî del III sec. a. C., in tutto il resto della città.

FONTE: voce di D. ADAMESTEANU in Enciclopedia dell'Arte Antica. I Supplemento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1973

Le perle lucane. 2. Lagonegro

«Partiamo da Lauria dopo avervi passata la notte, ma ancor troppo presto per poterne discernere la posizione; abbiamo fatto ventotto miglia ...