martedì 20 agosto 2013

Storici Lucani. 6. Michele Lacava, medico, cronista e polemista

Nato dal dottore in utroque jure Giuseppe Domenico e da Brigida Francolino, da giovane studiò lingua italiana, latina e matematica ed ebbe come tutore lo zio sacerdote Pietro Lacava. Nel 1856 si trasferì a Napoli, dove studiò lettere nella scuola di Bruto Fabbricatore, filosofia e fisica dal professor Palmieri, chimica sotto i professori Guarini e Cappa, scienze naturali e medicina all’università.
Tra il 1859 e il 1860 fu cooperatore con suo fratello Pietro per lo scoppio dell’insurrezione lucana, con il grado di tenente d’ordinanza sotto il colonnello Camillo Boldoni; fu poi egli stesso generale e prestò regolare servizio sotto Garibaldi e, nominato luogotenente per la Brigata Corte, partecipò ai combattimenti tra il 2 e il 31 ottobre 1860.
Si laureò in medicina nel 1861, perfezionandosi in chirurgia l’anno successivo e, tornato a Corleto Perticara, vi esercitò la professione per 12 anni, entrando, poi, nell’amministrazione del Banco di Napoli; rivestì gli incarichi di cassiere a Potenza, poi di ispettore della sede di Milano e in quella di Bari, per poi essere direttore della succursale di Potenza e, ancora, fu ancora ispettore della dipendenza di S. Giacomo e Direttore del Tesoro Centrale del Banco.
Nel 1866 tornò a prendere parte servizio militare e combatté contro l'Austria militando di nuovo sotto il generale Garibaldi, al quale, in quanto medico, medicò le ferite che si procurò nella pineta di Ravenna. Come luogotenente medico, installò a Vestone un ospedale dove curò i feriti italiani e austriaci e, finita la guerra, iniziò a dedicarsi all’attività letteraria, pubblicando, nel 1867, Le Nazionalità Europee; successivamente scrisse vari articoli circa l’igiene dei contadini lucani sul giornale scientifico Lucania Medica.
Nel 1874 fu consigliere provinciale del mandamento di Calvello, e per i successivi vent’anni fece parte del consiglio provinciale di Basilicata, promuovendo il ripristino del nome Lucania. Sempre nell’ambito del Consiglio provinciale, portò all’attenzione pubblica le diverse problematiche che affliggevano la Basilicata, pubblicando opuscoli riguardanti la viabilità, la sanità, le opere pie, e lo stato delle ferrovie.
Nel 1876 venne nominato ispettore degli scavi di Metaponto, promuovendo il restauro del tempio di Minerva e tentando invano di creare un museo in Potenza per raccogliere tutti i reperti rinvenuti, che finirono a Napoli. Il Lacava intraprese studi anche su altre antichità lucane, rinvenendo numerose antiche città italiche sui monti della regione e dei territori limitrofi. Tra tutte, si ricorda, nel 1891, la definitiva localizzazione di Blanda Julia nella campagna di Tortora, in provincia di Cosenza.
Nel 1880 accompagnò il francese François Lenormant nella sua escursione archeologica nell’Italia meridionale. Dal 1885 al 1886 fu direttore della "Lucania Letteraria".
Nel 1890 diede alle stampe la celebre Cronistoria documentata dell’insurrezione di Basilicata del 1860, un imponente volume che raccoglie una grande quantità di documenti circa la rivoluzione a cui lo stesso Lacava prese parte. Nel 1891 pubblicò una monografia sulla figura di Mario Pagano, in occasione dell’erezione di un monumento a lui dedicato a Brienza.
Morì nel 1896 a Torre del Greco, lasciando incompiuta la sua ultima opera, dedicata al fenomeno del brigantaggio. I solenni funerali si tennero a Corleto Perticara il 24 agosto.

lunedì 19 agosto 2013

Risorgimento lucano. 11. Giacinto Albini: primo governatore di Basilicata

Giacinto Albini nacque a Napoli il 4 marzo 1821 da Gaetano, ostetrico e chirurgo proveniente da Montemurro (Potenza), e da Elisabetta Morgigno. In quella città conseguì nel 1843 la laurea in utroque iure,e dopo il 1845 apri una scuola di giurisprudenza e letteratura, avendo conseguito l'abilitazione all'insegnamento per tali discipline. Di tale periodo ci restano una raccolta di versi, Ore poetiche (Napoli 1845)e un Corso teorico-pratico di lingua latina (Napoli 1850).Nello stesso tempo, l'Albini iniziò l'attività politica, affiliandosi giovanissimo alla carboneria; è invece da escludersi la sua iscrizione alla Giovine Italia, sostenuta da alcuni suoi biografi, ma contraddetta sia dai documenti relativi alla sua attività, sia dagli atteggiamenti che assunse dal 1848 al 186o. Distintosi sulle barricate di Napoli del 15 maggio 1848, fu successivamente tra i fondatori di una società segreta carbonico-militare, che, sulla scia della tradizione del 1820, si prefiggeva di operare specialmente nelle file dell'esercito, e di essa curò l'organizzazione in Basilicata, ove si era trasferito, stabilendosi nel paese paterno di Montemurro. Accusato nel 1850 di essere membro di un'inesistente setta dei "Pugnalatori",pretesa filiazione della società carbonico-militare, dopo un periodo di latitanza usufrui della sovrana indulgenza del 17 genn. 1852.
Dopo la conclusione del processo a carico degli affiliati lucani alla setta dell'Unità Italiana, fu al centro dell'attività cospiratrice in Basilicata, mantenendo legami tanto con i democratici quanto con i moderati. Assunto il nome di battaglia di "Maestri", ebbe rapporti con i liberali napoletani che facevano capo a G. Fanelli, senza però assumere la posizione che gli attribuiscono i suoi biografi, i quali ritengono che l'Albini avrebbe avuto l'incarico di fare insorgere le popolazioni lucane in occasione dello sbarco di Carlo Pisacane a Sapri. In realtà nessuna concreta attività diretta a questo fine fu svolta dall'Albini in Basilicata. Nel maggio del 1857, avuto sentore che in Montemurro si era tenuta una "seduta settaria", e sorti sospetti relativamente ai rapporti che intercorrevano tra Napoli e i liberali operanti in alcuni paesi lucani, l'intendente di Basilicata sollecitò una maggiore sorveglianza su tutti gli "attendibili" della regione residenti a Napoli, consigliandone il rimpatrio. Tra i colpiti fu anche l'Albini, che venne arrestato e, scarcerato dopo il fallimento dello sbarco di Pisacane, nell'agosto del 1857 relegato in Montemurro in domicilio coatto.
Nel dicembre di quello stesso anno, accusato di aver promosso una manifestazione ostile al governo, cui si attribuiva indifferenza e disinteresse nei confronti delle popolazioni colpite dal terremoto che aveva devastato quel centro abitato, venne relegato a Corleto Perticara, ma, dopo qualche mese, ottenne di rientrare in Napoli. Pur continuando a manifestare le sue simpatie per il movimento mazziniano, cui per altro non aveva mai aderito, l'Albini cominciò ad accostarsi al Comitato dell'ordine, cui facevano capo i moderati meridionali, prima collaborando autorevolmente al Corriere di Napoli, loro organo clandestino, e poi, nel 1859, aderendo definitivamente al Comitato stesso. Dopo aver compiuto nell'estate del 1860 una missione in Calabria, per organizzarvi l'insurrezione, l'Albini diresse, come delegato del Comitato dell'ordine, la rivolta delle province lucane, divenendo, il 19 agosto 1860, prodittatore della Basilicata, insieme col garibaldino tarantino Nicola Mignogna, rappresentante del Comitato di azione. Durante la prodittatura, l'Albini mise alla testa delle giunte insurrezionali uomini di sua fiducia, aderenti al Comitato dell'ordine, ed affidò il comando degli insorti lucani al colonnello cavouriano Camillo Boldoni, già difensore di Venezia con il generale Guglielmo Pepe. Il 10 settembre, dopo avere sciolto le giunte insurrezionali, l'Albini assumeva, in forza di un decreto di Garibaldi del 6 settembre, la carica di governatore della Basilicata con poteri illimitati. Tale carica conservò fino alla metà dell'ottobre seguente, eliminando in questo breve periodo i funzionari e i magistrati borbonici. Eletto il 27 gennaio 1861 deputato nei collegi di Lagonegro e di Melfi, dovette rinunciare al mandato parlamentare essendo stato nominato, fin dal novembre 1860, uffìciale di nipartimento della ex Presidenza del consiglio di Napoli e, successivamente, direttore della Stamperia reale. Nel febbraio 1861 fu tra i fondatori in Napoli del Comitato di provvedimento per Roma e Venezia e, successivamente, promotore di numerose società operaie di mutuo soccorso in Campania e in Basilicata. Nel 1868 venne nominato tesoriere generale della provincia di Benevento, e in quella città fu esponente massonico e consigliere comunale, dopo essere stato, nel 1867, vicesindaco di Napoli. Sindaco di Montemurro dal 1876 al 1878, il 6 novembre di tale anno assunse la carica di conservatore delle ipoteche di Potenza. Quivi morì l'11 marzo 1884.

FONTE: voce di T. PEDIO in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1962, vol. 2

venerdì 16 agosto 2013

Ferdinando Petruccelli della Gattina, da Moliterno per l'Europa

Nato a Moliterno, in Basilicata, il 28 agosto 1815, Ferdinando Petruccelli aggiunse, in seguito, "della Gattina" (nome di una sua proprietà) al suo cognome al fine di evitare la polizia borbonica che lo avrebbe perseguitato per motivi politici. Il padre Luigi era un medico e membro della Carboneria, mentre sua madre Maria Antonia Piccininni era una nobildonna di Marsicovetere.
Cresciuto negli ambienti religiosi, per gli abusi ricevuti da bambino avrebbe sviluppato un forte anticlericalismo che si riflette nelle sue opere. Durante la sua giovinezza, si dedicò allo studio del latino e del greco: in seguito, frequentata l'Università di Napoli, laureandosi in medicina, scelse la via del giornalismo.
Nel 1838, iniziò la sua carriera per il giornale Omnibus e, nel 1840, viaggiò in Francia, Gran Bretagna e Germania come corrispondente per il "Salvator Rosa" e il "Raccoglitore fiorentino". A causa delle sue idee liberali, fu arrestato per la sua appartenenza Giovane Italia e inviato sotto scorta nella sua città natale.
Tornato a Napoli nel 1848, Petruccelli venne eletto deputato al parlamento napoletano e fondò "Mondo Vecchio e Mondo Nuovo", un giornale che accusava la dinastia borbonica di malgoverno in politica interna ed estera e, proprio per i frequenti attacchi sulla corona, fu soppresso dalla magistratura. Dopo la sospensione della costituzione promulgata dal re Ferdinando II pochi mesi prima, prese parte ai disordini dello stesso anno: la rivolta fallì ed egli fu costretto a fuggire in Francia, mentre il governo condannava a morte e confiscava le sue proprietà.
Durante il suo soggiorno francese, Petruccelli ampliava i suoi orizzonti politici e culturali, grazie a contatti con rinomati pensatori, frequentando i corsi alla Sorbona e al Collège de France, studiando letteratura francese e inglese e perseguendo una brillante carriera come giornalista, diventando conosciuto e apprezzato in Europa. Soprannominato, ironicamente, Pierre Oiseau de la Petite Chatte (traduzione francese del suo cognome), entrò nel mondo del giornalismo francese grazie a Jules Simon e Daniele Manin, che apprezzò l'intervento del "Mondo Vecchio e Mondo Nuovo" a favore della Repubblica di San Marco.
Petruccelli divenne corrispondente di riviste francesi e belgi, come La Presse, Journal des Débats, Revue de Paris, Courrier Français e Indépendance Belge. Nel 1851, combattè con i repubblicani francesi contro il colpo di stato di Luigi Napoleone Bonaparte (più tardi conosciuto come Napoleone III), ma, dopo il fallimento della ribellione, fu espulso dalla Francia. Si stabilì in Inghilterra, dove incontrò Giuseppe Mazzini, Louis Blanc, Lajos Kossuth e altri rifugiati e lavorò per The Daily News di Charles Dickens e altri giornali come il Daily Telegraph e Cornhill Magazine.
Nel 1859, fu corrispondente della seconda guerra di indipendenza italiana e, nel 1860, della spedizione dei Mille, a seguito di Giuseppe Garibaldi dalla Calabria fino al suo ingresso a Napoli. Con la nascita del Regno d'Italia, fu membro del Parlamento italiano, seduto sulle panche della sinistra per diversi anni, e contribuì a quotidiani italiani e riviste come L'Unione, L'Opinione, Fanfulla della Domenica, Cronaca Bizantina e Nuova Antologia.
Nel 1866, Petruccelli era corrispondente per il Journal des Débats durante la Terza Guerra d'Indipendenza italiana e, nel 1868, sposò una scrittrice inglese, Maude Paley-Baronetto, che aveva incontrato a Londra nel 1867. Nel 1870 seguiva la guerra franco-prussiana, riportando gli eventi dalle barricate parigine e, dopo la caduta della Comune di Parigi, fu espulso dalla Francia per ordine di Adolphe Thiers (contro il quale rivolse parole amare) per aver difeso i Comunardi.
Visse il resto della sua vita afflitto da una paralisi che gli impediva di scrivere, ma, con l'aiuto di sua moglie, fu, almeno in parte, in grado di continuare la sua attività. Petruccelli morì a Parigi 29 marzo 1890 e il suo cadavere fu cremato: il comune napoletano aveva proposto di portare le sue ceneri al cimitero di Poggioreale, ma la moglie rifiutò ed esse furono sepolte a Londra, rispettando la volontà di Petruccelli.

mercoledì 14 agosto 2013

La Basilicata napoleonica. 5. I materani commentano l'elevazione di Potenza a capoluogo (1811)

Matera Città caduta nell’avvilimento, e desolazione sotto il duro giogo della passata occupazione militare, in cui non regnava, che lo spirito di rovesciare tutti i sistemi adottati dalla legittima Dinastia, non sa più vedersi languire senza i Tribunali, e le altre Autorità provinciali, delle quali era stat’antica fede. Cerca risorgere or che vede ristabilito il Trono di un Sovrano tanto protetto da Dio; e scomparso finanche dal Mondo colui, che non esisteva se non per procurar stragi e rovine. La Sua Causa tocca l’interesse di una numerosa popolazione che si volle perdere in odio di aver adempito al proprio dovere nelle circostanze più calamitose, spiegando una costante fedeltà, ed attaccamento a favore del vero Re. Tocca l’interesse di trecentomila sudditi che compongono la Basilicata, e che isdegnano di aver Potenza per Capitale. Le voci di tanti meritano di essere a preferenza ascoltate, e lo sperano dalla Clemenza di un Principe da essi adorato come Sovrano, ed amato più che Padre, avendo anche delle ragioni ad esperimentare i suoi effetti = Dettaglio intor- //1v// no l’origine del Tribunale in Matera, sua durata, e capriccioso spoglio seguito a di lei danno = Filippo IV Monarca delle Spagne, essendo ancora Sovrano di Napoli, volle nel 1640 per la più esatta amministrazione della Giustizia aumentare nel Regno il numero dei Tribunali Pro-vinciali. Il Duca Mediana era il suo Vice - Re, e questi dispose, che uno dei nuovi Tribunali, avesse nell’Aquila in Abruzzo Ultra, e l’altro in Stigliano nella Basilicata. Era Stigliano un Paese più approssimativamente al centro della nuova Basilicata, ma molto infelice per i suoi piccioli fabbricati; per la poca stabilità del suolo, che spesso scio-glievasi, e ne portava via gli edificj; per la sua situazione su una montagna elevata, ed esposta a tutti i venti, e per la mancanza di quell’abbondanza di viveri, e delle altre comodità richieste in un Capoluogo. D. Carlo Sanseverino Conte di Chiaromonte fu il primo Preside destinato alla Basilicata. Costui riconoscendo la residenza di Stigliano per inadatta, riferì l’occorrente, e fu ordinato di trasferirsi altrove la sede della Regia Udienza. Girò per Potenza, Vignola, Tolve, Tursi, e nel seguente anno 1641 arrivò in Matera, ove ritrovò la sua stabilità. Né più s’intesero reclamare le popolazioni, come avevano fatto contro gli altri luoghi prima scelti. = Nel 1734 fu questo Regno conquistato dalle vittoriose armi dell’immortale Carlo III, e nell’anno seguente Matera ebbe la sorte di vedersi onorata dalla //2r// sua Reale presenza, in occasione del ritorno da Sicilia, ove fu solennemente coronato. Allora si degnò confermarla Capitale, ed i Materani eccitati dalli più sinceri sentimenti di divozione, e riconoscenza, gli eressero il monumento della Statua Equestre, che fu situata sopra la porta del pubblico Sedile, sporgente alla piazza maggiore della Città, ove tuttavia esiste. = Dopo 25 anni che durò il Governo di sì illustre Eroe, prese le redini del Regno l’Augustissimo suo figlio Ferdinando I, il quale ereditando tutte le virtù di un padre, il cui nome non può essere abbastanza lodato, riconobbe anche Matera per Sede del Preside e della Regia Udienza fino a Febbraio 1806 = Munita la detta Città di titoli così rispettabili, non avea di che temere, ma comparse appena nel Regno le Armi Francesi, si cercò di fare contro di essa una vendetta, per essersi distinta nei rincontri più duri, e specialmente nel 1799 nella difesa della causa del legittimo Sovrano, combattendo con quella città, ove si era insinuato il veleno, che ha poi prodotto stragi, e rovine orribili. Il tempo era opportuno per distruggere i più savii sistemi conservati per tanti secoli, ed i spiriti novatori erano pronti per la riforma, per cui guardati i poveri Materani come di una opinione contraria a quella, che si voleva piantare, fu nello stesso anno 1806 pronunciato il Decreto, perché la loro Patria cessasse di essere Capitale, e prendesse questo nome Potenza, che aveva un merito a mostrare della medesima epoca del 1799. = Pubblicato un tale De- //2v// creto si atterrì l’intera popolazione, ed affinché si fosse allontanato il fulmine, ch’era per desolarla si spedì il Sindaco in Napoli. Questi si presentò da Giuseppe Bonaparte, ed ottenne, che l’affare si fosse proposto in Consiglio di Stato. Nel medesimo il voto del Sig. Saliceti valeva più di quello di tutti i Consiglieri uniti. Egli sia perché sdegnato contro il detto Sindaco, che non si era da lui diretto, sia perché Matera era invisa, sia perché voleva far conoscere la sua grandezza del potere, mentre tutti con-chiusero a favore di Matera, fu il solo ad opporrersi, ed al suo partito fece piegare il detto Giuseppe. Si pentì quindi di un gran male, che si sarebbe fatto all’intera provincia con tale traslocazione, ed impedì, che fusse succedut’alcuna novità, onde si fu, che ritrovandosi il solo Intendente passato in Potenza, questi vi restò, e Matera continuò ad essere sede dei Tribunali, talmentechè ivi fu-rono a Gennaio 1809 istallati all’uso francese, e non in Potenza. = Alla coda dell’Armata era in questo Regno venuto un certo Sig. Luigi Flach della Corsica per fare la sua fortuna. Avea un dritto a togliere il pane ad un Nazionale, ed occupò la carica d’In¬ten¬dente in Potenza. I suoi talenti non erano fatti per sostenere un tal posto, e si ebbe ad abbandonare totalmente nelle braccia dei suoi consiglieri e dei capi delle Divisioni di quel Burò, voca-bolo allora usitato. Tutti questi erano persone dotate di Dottrina, e di onestà, ma erano uomini, che non sapevano ri- //3r// nunciare ai propri vantaggi. Chi era di Potenza, ed avea un interesse per migliorare la sua patria. Chi di un luogo limitrofo, ed in carica, e gli piaceva di esercitarla in una residenza da essere sempre in mezzo alla sua famiglia. Chi ivi stabilito con un buon soldo, e voleva conservarselo. Circondato così il detto Intendente assunse l’impegno, e profittando della circostanza di trovarsi alato di Murat il suo intimo amico, e paesano Gentile, allora Generale di Gendarmeria, gli riuscì col di costui favore in Ottobre del 1811 di far scrivere dal detto Murat un altro Decreto, che fra quindici giorni passassero i Tribunali a Potenza. L’esecuzione fu pronta, ed ecco come restò quella sventurata Città spogliata del suo antico lustro spietatamente, e desolata. Matera è la migliore Città di tutta la Basilicata. Ha titoli efficacissimi, possesso di secoli, e merito per ricuperare il suo primiero lustro di Capitale.

FONTE: ARCHIVIO DI STATO DI MATERA, Fondo Gattini, b. 41, fasc. f, Memorie a pro della Città di Matera perché ottenga di ritornare ad essere Capitale della Basilicata, cc. 1r-2v.

martedì 13 agosto 2013

Quinto Orazio Flacco. 1. Una visione a volo d'uccello

Orazio nacque a Venosa da padre libertinus nel 65 a.C., come egli stesso dice, e fu educato a Roma, dove ebbe come primo maestro Orbilio; compiuti i vent'anni si recò ad Atene, a completare gli studi retorici. 
Prima o dopo questo viaggio fu forse in Campania, dove venne in contatto con il circolo epicureo di Filodemo, in cui compì l'esperienza filosofica che rimase fondamentale nella sua vita; e certamente subì anche l'influsso del poema dottrinale di Lucrezio. In Atene aderì al mondo dei giovani romani che vi studiavano, e alle idee repubblicane e anticesariane tra loro diffuse. Perciò, dopo l'uccisione di Cesare, militò sotto Bruto come tribunus militum. Dopo Filippi rinunciò all'idea repubblicana, che rimase per lui solo un ricordo e un sogno della giovinezza. Dalla delusione morale e politica gli derivò una sottile amarezza che gli rimase poi sempre; per vivere si adattò al mestiere di scriba questorio, mentre proseguiva nell'approfondimento della pratica poetica già prima iniziata. Studiò la diatriba stoico-cinica, i poeti giambici greci, Ipponatte e Archiloco, e in genere la poesia lirica ellenistica classica e alessandrina. 
Incontratosi con Virgilio, giunto a Roma dopo l'esproprio del suo podere mantovano, fu da questo e da Vario presentato (38) a Mecenate, con il quale strinse un'amicizia decisiva per la sua vita. Lo seguì nel viaggio a Brindisi (37) per il rinnovo dell'accordo fra Ottaviano e Antonio; ritornato a Roma, divenne il centro del circolo poetico che si raccoglieva intorno al potente consigliere di Augusto; e Mecenate, comprendendo la natura schiva dell'amico, gli fece dono (nell'anno 31 circa) di una villa in Sabina, presso Licenza, che fu il rifugio e la consolazione di tutta la vita di Orazio. 
La produzione poetica di Orazio si estende attraverso uno dei periodi più difficili della storia romana: egli si forma nell'età dell'ultima guerra civile e muore quando la pace augustea è già da molti anni stabilita e la repubblica è sistemata da tempo nel nuovo
ordinamento del principato. Tuttavia non si può dire che Orazio abbia cercato di partecipare attivamente alle battaglie spirituali e politiche del suo tempo: tutt'altro che distaccato dalla vita, egli cercò di sottrarsi, per quanto era possibile, alla tempesta che travagliava la società e lo stato romano. Ma non rimase affatto insensibile ad essa, e lo testimoniano per esempio gli epodi, nei quali è possibile sentire la voce di una sincera passione civile, filtrata, però, da una sensibilità soprattutto moralistica. Via via che il tempo passa e la sua giovanile esperienza politica si allontana, Orazio si fa sempre più il poeta della vita quotidiana, nella quale entrano anche le passioni politiche in quanto motivo di gioia per le vittorie della parte cui egli ha aderito ormai senza riserve, quella di Augusto, o di sconforto (mai espresso in forma violenta) e inquietudine per le difficoltà e i dolori dell'uomo. Il suo animo è pacificato dalla profonda amicizia di Mecenate, ed egli può darsi tutto alla letteratura e a quella meditazione sugli uomini, sui loro costumi e caratteri, nella quale non si abbandona mai a toni amari, e che ama temperare con quella elegantissima ironia di cui è maestro. L'esperienza epicurea e quella stoico-cinica, che egli accoglie con eclettismo di artista, non preoccupato di coerenza filosofica, alimenta la sua naturale disposizione alla solitudine, nella quale è gradevole osservare il vano agitarsi degli uomini dietro ai loro meschini o grandi interessi, mentre egli ricerca intanto i piaceri dell'esistenza con la moderazione che toglie loro ogni aspetto di passione e permette di controllarli e di non esserne travolto.
Tra la Sabina e Roma egli visse poi sempre; e come egli stesso aveva predetto, non si allontanò dall'amico carissimo neppure nella morte; morì infatti pochi mesi dopo Mecenate, il 27 novembre dell'8 a.C. e fu sepolto sull'Esquilino presso il tumulo di lui. 
E' autore di Epodi, Odi, Satire ed Epistole. Gli Epodi e le Odi appartengono al genere lirico: sono scritti, cioè, nei metri della giambica (Epodi) e della lirica greca (Odi), già usati dai neoteri, ma condotti da Orazio a una regolarità di forme e a una perfezione che rimarranno poi classiche. Nelle odi prevalgono la strofe saffica e le varie strofe alcaiche, oltre le asclepiadee. Se Orazio cerca ispirazione direttamente nei lirici monodici dell'età classica (Archiloco, Saffo, Alceo, Anacreonte), risente però anche della nuova lirica alessandrina (Asclepiade) specialmente per l'estrema cura dell'espressione formale. 
Le Satire (propriamente Sermones) e le Epistole sono invece composizioni in esametri, metro che rimarrà quello proprio del genere. Orazio tratta l'esametro con libertà, spezzandone il ritmo epico e riconducendolo a una forma discorsiva, quasi di prosa, con raffinati procedimenti stilistici, rimasti insuperati. 
Epodi e Satire rappresentano la prima fase della sua produzione: forse, il suo primo componimento è l'epodo XIII, dell'epoca di Filippi, e il secondo la satira VII del 1° libro, di epoca poco posteriore. La composizione degli Epodi e delle Satire procede di pari passo: nel 35 appare il 1° libro delle Satire, dedicato a Mecenate; nel 30 il libro degli Epodi e il 2° delle Satire. A questo periodo di produzione giambico-satirica fa seguito il periodo lirico: nel 23 egli pubblica i primi tre libri delle Odi, dedicati anch'essi a Mecenate. Immediatamente dopo, Orazio torna al genere dei sermones, concepiti ora in forma di epistola poetica: intorno al 20 appare il 1° libro delle Epistole, dedicato a Mecenate. 
Nel decennio successivo componeva: il Carmen saeculare (nel 17), in occasione dei Ludi saeculares, su ordinazione di Augusto; il 4° libro delle Odi e il 2° delle Epistole (pubblicati nel 13), comprendente come terza la grande epistola ai Pisoni, nota come Ars Poetica
http://www.youtube.com/watch?v=88hHrMgRn_cLa disposizione osservatrice di Orazio, la sua incomparabile attitudine a commentare, descrivere, illuminare gli individui incontrati nella vita, si esprime completamente nei suoi sermones, nelle satire, cioè, e nelle epistole; soprattutto perfetti il primo libro delle Epistole (il secondo è piuttosto di contenuto dottrinale) e molte satire, specie del 1° libro. Il suo ideale di vita goduta con sapiente moderazione, in solitudine ma non in isolamento, si esprime nel suo amore per la villa in Sabina: qui egli vive non lontano dalla città, da Mecenate e da Augusto, nei quali ritrova l'appoggio e la protezione, non meno spirituale che materiale, e dal Foro e dalle vie, nelle quali incontra quell'umanità di cui è sempre curioso; ma nello stesso tempo può conservare tutta la sua indipendenza, e ritrovare il silenzio di cui ha bisogno. Personalità ricca di affetti ma non espansiva, guardinga ma non sospettosa, Orazio è perfettamente padrone della forma poetica, come lo è del suo modo di vivere. Nei sermones si manifesta pienamente la sua virtù di stile piano, fluido ma anche curato ad arte, minuzioso nei particolari, dotto di lingua e di metrica, ma sempre lontano dall'esibizione. Il suo temperamento sembra, ed è in certo senso, antilirico. La sua lirica, perciò, è lontanissima proprio da quei modelli che egli si proponeva, Alceo, Saffo, Anacreonte. Da essi Orazio ha tratto l'amore per la forma pura, la levigatezza e la perfezione nelle gradazioni e nei colori; ma non ne ha sentito il calore e la potenza espressiva. Lo stile oraziano delle Odi è molto diverso, naturalmente, da quello dei sermones: altrettanto elevato quello, quanto questo è volutamente dimesso. Rimane, però, identica la personalità del poeta, che aspira soprattutto alla limpidezza, e che sa frenare l'impeto passionale che talora affiora, velandolo o di sottile ironia o, quando l'ispirazione è più ricca, di composta tristezza, nella quale si ritrovano i motivi del pessimismo greco, la consapevolezza della caducità delle passioni terrene e dell'umana debolezza. 

lunedì 12 agosto 2013

Paesi lucani. 9. Pescopagano: una breve descrizione

PESCOPAGANO, terra in provincia di Basilicata  in diocesi di Соnza. Е' situata sopra di un monte. Già altrove fu detto che la voce Pesca ne' tempi di mezzo, volle indicare un castello edifícato su di un monte. Questo paese è assai dominate da' venti. In un luogo, che chiamano Idolari per esservisi ritrovati appunto diversi idoletti, spesso vi hanno ancora scavati delli marmi litterati poco o nulla curati, e fatti anzi quegli andare inconsideratamente a male. In uno fui assicurato , che vi si leggea SILVANO DEO. Sopra la sua porta detta Sibilia, vi è una statua a mezzo busto di pietra bianca, e vi si legge Januy, e dall'altra patte la Sibilla. Il suo castello è opera de' mezzi tempi.
Nel suo territorio vi passa il fiume, che chiamano Guana, il quale va a scaricarsi nell'Ofanto. Le produzinni consistono in grano, granone, vino, ed oltre dell'agricultura, i suoi naturali al numero di circa 4000, sono addetti anche alla pastorizia. Non vi manca la caccia di lepri, volpi, e di più specie di pennuti . Nel 1532 la tassa fu di fuochi 153, nel 1545 di 119, nel 156l di 306, nel 1595 di 354, nel 1648 di 392, e nel 1660 di 309, e sempre dicesi Piescopagano, e non già Pescopagano, come doveasi scrivere.
Nel dì 8 Settembre del 1654 si rovinò dal terremoto colla morte di 230 cittadini, e circa 300 feriti, come dal documento esistente nella Regia Camera da me altra volta citato.
Questa terra fu posseduta per lungo tempo dalla famiglia Gesualdo, che l'ebbe da Ronerto, e finalmente passò a quella de Andrea, che tuttavia possiede con titolo di marchesato. Il Reggente Gennаrо d'Andrea fratello di Ciccio, il di cui nome è celebre nella storia del foro Napoletano, nel 1697 la comprò dal monte de' Gesualdi. Eravi una badia, o sia feudo Abadiale di S. Lorenzo in Tofara, a cui sono annesse due grancie poste nella vicina terra di Calitri, e di Andretta, una detta di S. Nicola de' Callitri, e l'altra di S. Maria della Matina di Andretta. Nel 1633 ne fu dismembrata, e nel 1696 ne avea ottenuto il possesso il cardinal Pier Luigi Caraffa. Nel 1756" ne fu poi cercata la reintegrazione.

FONTE: L. GIUSTINIANI, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, Napoli, Simoniana, 1805, t. VII, pp. 159-160.

venerdì 9 agosto 2013

Carmine Crocco: un brigante, non un alfiere di libertà

Nato a Rionero in Vulture (prov. di Potenza) il 5 giugno 1830 da Francesco, piccolo affittuario, e da Maria Gerardi, cardatrice di lana, ricevette da uno zio un'affrettata e modestissima istruzione, che lo mise in grado di leggere e scrivere stentatamente e a cui nondimeno egli attribuì, nell'autobiografia, l'origine della sua "smisurata tendenza a voler prevalere, a voler essere qualche cosa, sia pure un grande infame". Tale tendenza venne attizzata da un acre rancore contro la prepotenza signorile, che avrebbe provocato, secondo quanto narrò ancora il Crocco, lo sfacelo della sua famiglia; ma il suo racconto è reso poco credibile da amplificazioni dei fatti e da mere invenzioni, che s'ispiravano all'archetipo plurisecolare del contadino spinto a farsi brigante per vendicare gli oltraggi patiti e l'onore offeso.
Come pastore e come contadino il Crocco lavorò dall'età di sei anni in diverse masserie della Puglia e della Basilicata, finché, nel marzo 1849, fu chiamato alle armi: da Napoli seguì il suo reggimento di artiglieria in Sicilia, per partecipare alla repressione del moto separatista, e poi, nel dicembre 1851, a Gaeta, dove disertò poco dopo, con il grado di caporale. Tornato nella sua terra e datosi alla macchia, iniziò la carriera banditesca commettendo una serie di rapine nel corso del 1852 e del 1853; catturato e condannato a diciannove anni di ferri dalla gran corte criminale di Potenza (13 ottobre 1855), evase dal bagno penale di Brindisi, nel dicembre 1859, e ricominciò a ladroneggiare.
Quando, nell'imminenza dell'arrivo di Garibaldi, Potenza insorse contro i Borbone (18 agosto 1860), il Crocco si aggregò ai patrioti, sperando che il nuovo Stato unitario avrebbe dimenticato i suoi passati delitti. Presto, però, si avvide che le promesse dategli in proposito dai capi liberali potentini non venivano tenute in nessuna considerazione dall'autorità giudiziaria, sicché, per evitare la cattura, il 7 genn. 1861, si rese latitante e tentò invano di espatriare in Grecia da un porto pugliese. Arrestato a Cerignola (Foggia) il 27 gennaio, riuscì di nuovo ad evadere dopo solo otto giorni di detenzione grazie al favore della potentissima famiglia dei Fortunato. e si rifugiò nelle foreste del Vulture, dove si pose alla testa di una dozzina di grassatori.
Venne allora istigato dai gruppi borbonici attivi nel Melfese a fare della sua banda lo stato maggiore di un esercito sanfedista che accendesse la controrivoluzione nel circondario, e allo scopo gli furono procurati uomini e denaro; quantunque avesse "costantemente abborrito" Francesco II, il Crocco si lanciò tuttavia nell'avventura reazionaria, perché si sentiva "sicuro di ricavarne guadagno e gloria". Al termine di preparativi durati per tutto il marzo del 1861, tra il 5 e il 7 aprile, nel bosco di Lagopesole, si raccolsero sotto il suo comando circa cinquecento uomini armati inadeguatamente, che provenivano per lo più dallo sfascio dell'esercito napoletano. Sbaragliando deboli drappelli di guardie nazionali, questa colonna invase i paesi di Ripacandida (8 aprile), Venosa (10 aprile), Lavello (14 aprile), nei quali proclamò una effimera restaurazione borbonica, con la connivenza dei notabili legittimisti, e si sfrenò in saccheggi, distruzioni ed eccidi di liberali, con il concorso della plebe più misera.
Mentre scoppiavano sommosse in numerosi altri centri della provincia, la sera del 15 aprile Crocco entrò in Melfi, accolto trionfalmente dalla popolazione e dal governo provvisorio, già costituito dal 12, e vi si trattenne due giorni, durante i quali riordinò la sua masnada, che si era rapidamente accresciuta, in centurie agli ordini di capitani e in reggimenti agli ordini di colonnelli, riservando a se stesso il grado di generale. Fallita la presa di Rionero da un suo luogotenente, evacuò Melfi all'alba del 18 per effettuare, tra il 18 e il 22, una scorreria nell'alta Irpinia, con occupazione dei comuni di Monteverde, Carbonara, Calitri e Sant'Andrea. Il 23, per sfuggire all'accerchiamento delle truppe regolari e delle milizie civiche convergenti nella zona, ricondusse il nerbo delle sue schiere nel sicuro asilo di Lagopesole. Quali manutengoli del Crocco furono arrestati, tra gli altri, i più cospicui cittadini di Melfi, L. Aquilecchia e C. Colabella (20 apr. 1861), e di Rionero, P. Catena e i fratelli Fortunato (18 dic. 1861); ma vennero prosciolti in istruttoria sia i primi (7 genn. 1863) sia i secondi (8 luglio 1862), con sentenze che non eliminarono i sospetti della pubblica opinione. È difficile ormai misurare le responsabilità di costoro, anche perché molte carte processuali che li concernevano sono scomparse. Giustino Fortunato, che restò ossessionato dallo spettro del Crocco, raccolse "tutta una biblioteca di libri e mss. intorno a lui", ma non scrisse mai quell'opera sul brigantaggio del Melfese che vagheggiò a lungo di compilare, per dimostrare l'innocenza del padre, Giuseppe, e degli zii, Gennaro e Pasquale.
Quando l'ordine sembrava ristabilito in Basilicata dalla durissima repressione militare, il 10 agosto il Crocco mise a sacco Ruvo del Monte, e il 14 nella macchia di Toppacivita, respinse un assalto di fanti, bersaglieri e guardie nazionali, dopo un aspro combattimento in cui rivelò la propria abilità tattica. Ormai egli non rivestiva più con pretesti politici il suo agire brigantesco e affermava la sua preminenza su parecchi rinomati capibanda, quali G. Fortunato (Coppa), G. N. Summa (Ninco Nanco), G. Caruso, P. Cavalcante, T. Gioseffi (Caporal Teodoro), A. Sacchitiello, G. Schiavone, P. Serravalle, D. Tortora.
Il 22 ottobre Crocco s'incontrò nel bosco di Lagopesole con una quindicina di spagnoli, ex ufficiali del disciolto esercito carlista, che, al comando dell'ex generale José Borjes, erano stati inviati nel Mezzogiorno, per sollevarlo, dalla corte borbonica in esilio, e qualche giorno dopo fu raggiunto dall'avventuriero francese A. de Langlais, presumibilmente emissario di Napoleone III. Subito il C. manifestò un beffardo disprezzo per la fedeltà del Borjes all'ideale legittimista, ma aderì al suo progetto di riaccendere la rivolta reazionaria in Basilicata, confidando, anche in questa occasione, di "arricchire col saccheggio e coi ricatti".
Ebbe inizio così una spedizione micidiale che devastò, tra il 3 e il 16 novembre, Trivigno, Calciano, Garaguso, Salandra, Craco, Aliano, Stigliano, Cirigliano, Grassano, San Chirico, Vaglio. Il Borjes fornì il decisivo apporto della sua perizia guerresca nella conquista di questi paesi e nella vittoria contro le truppe regolari al mulino dell'Acinello (10 novembre), presso il torrente Sauro, ma non ebbe quasi nessuna autorità sui briganti, come continuò a lamentare nel suo diario. né poté impedire efferratezze che lo inorridirono. Il suo scarso prestigio svanì del tutto dopo l'insuccesso dell'attacco su Potenza - insuccesso cui non fu estraneo l'ambiguo contegno del C. - e la sconfitta di Pietragalla (17 novembre): egli e i suoi spagnoli vennero destituiti dai comandi (20 novembre) e come soldati semplici parteciparono alla invasione di Bella (22 novembre), Ricigliano (24 novembre), Pescopagano (26 novembre).
Ormai i duemila uomini dell'orda brigantesca erano stanchi, sazi di preda, minacciati dall'avanzare dell'inverno e incalzati da reparti della brigata Acqui: Crocco li ricondusse sul Vulture, dove ne disarmò e congedò la maggior parte (27 novembre), e divise i rimanenti in piccoli gruppi. Il Borjes, deluso, s'incamminò verso Roma con pochi compagni, ma venne catturato e fucilato, l'8 dicembre, a Tagliacozzo (L'Aquila). Dal fallimento del suo tentativo di promuovere nel Mezzogiorno la guerriglia in nome di Francesco II, emergevano netti i limiti del brigantaggio postunitario, affatto incapace d'indicare uno sbocco, nonché politico, neppure militare, alla protesta contadina, di cui restava peraltro un sintomo vistoso.
Dopo la partenza del Borjes, Crocco non osò più operazioni in grande stile e si restituì definitivamente al mero malandrinaggio, che praticò anche in danno di possidenti borbonici e in un'area estesa alla Puglia e al Molise. Alla testa, per lo più, di bande poco numerose, si dette a perpetrare razzie di bestiame e di vettovaglie, aggressioni di viandanti, assalti di corriere, saccheggi di masserie, evitando di scontrarsi con le truppe, tranne che non riuscisse ad attirare piccoli distaccamenti in imboscate sterminatrici, che replicavano atrocemente alle spietate misure repressive dell'esercito, autorizzate dalla legislazione eccezionale.
Dall'aprile al settembre del 1862, fiancheggiato spesso dal Sacchitiello, inflisse perdite gravissime a drappelli di fanti e di bersaglieri in alta Irpinia; il 4 novembre, insieme con il ferocissimo capobanda pugliese M. Caruso, trucidò una mezza compagnia del 360 reggimento di fanteria presso Santa Croce di Magliano (Campobasso); nel corso del 1863 massacrò due plotoni di cavalleggeri di Saluzzo tra Melfi e Venosa, il primo alla masseria Catapano (12 marzo), il secondo alla masseria Casella (26 luglio). Nonostante la condotta disumana di entrambe le parti in lotta, appena fu pubblicata la legge Pica (15 ag. 1863), s'intavolarono trattative che avrebbero dovuto condurre alla resa del Crocco, e invece non andarono oltre uno scandaloso convegno, tenuto a Rionero, tra i più noti capibriganti e le più alte autorità militari della regione (7 settembre).
All'inizio del 1864, dopo aver sgominato le bande del Beneventano e della Capitanata, il generale E. Pallavicini di Priola trasferì il suo quartier generale a Spinazzola (Bari) e cominciò ad aggredire il brigantaggio lucano, dal versante pugliese, con una strategia assai più dinamica di quella dei suoi predecessori. Quantunque il C. ricorresse a tutta la sua astuzia guerrigliera, che venne riconosciuta dallo stesso Pallavicini, si trovò presto in difficoltà; tra l'altro, in marzo, venne preso e ucciso Ninco Nanco, il più fedele dei suoi luogotenenti.
Nel giugno 1864 Pallavicini sostituì il generale Franzini nel comando della zona militare unificata di Melfi e Lacedonia, risoluto a sferrare il colpo finale, e allo scopo si avvalse spregiudicatamente della collaborazione offertagli da G. Caruso, ex luogotenente del Crocco; costui, infatti, consegnatosi nel settembre 1863, aveva messo a disposizione delle forze repressive la sua preziosa conoscenza di nascondigli, informatori e stratagemmi del suo antico capo. La banda del Crocco fu braccata senza tregua finché, il 25 luglio 1864, subì una disfatta rovinosa, insieme alla banda di Schiavone, sul fiume Ofanto, tra il ponte di S. Venere e il "passaturo" Canestrelli.
Scampato fortunosamente, Crocco giudicò persa la partita, e poiché non era posseduto da quella tenebrosa pulsione autodistruttiva che contrassegnava la psicologia di parecchi illustri briganti, si preoccupò innanzitutto di salvarsi. Il 28 luglio sì avviò verso lo Stato pontificio, seguito da una decina dei suoi, e vi giunse il 24 agosto con quattro superstiti e con una grossa somma di denaro. A Roma sperava di far valere le proprie benemerenze legittimiste, invece fu imprigionato con l'accusa di essere responsabile della morte del Bories. Assolto da tale imputazione, non riebbe la libertà, perché la sua scarcerazione avrebbe irritato il governo italiano; tuttavia non gli vennero contestati altri reati, perché si temeva che da un processo a suo carico emergessero le ingerenze pontificie nei moti reazionari lucani. Il governo romano cercò di liberarsi di questo scomodo prigioniero, imbarcandolo per l'Algeria nell'aprile 1867, ma il governo francese lo intercettò a Marsiglia e, dopo una breve detenzione, lo rispedi a Roma.
Nel settembre 1870 il C. fu trovato dalle truppe italiane nel forte di Paliano (Frosinone), da dove venne tradotto rielle carceri di Avellino (giugno 1871), e successivamente in quelle di Potenza (luglio 1872). Qui fu processato e condannato a morte con sentenza emessa dalla corte d'assise l'11 settembre 1872, ma con decreto reale del 13 settembre 1874 la pena capitale fu commutata, per soddisfare probabilmente "il volere francese", in quella dei lavori forzati a vita, che egli scontò nei penitenziari di Santo Stefano e di Portoferraio.
Durante la reclusione il Crocco ebbe modo di attendere all'autobiografia, di cui stese almeno due redazioni, assai diverse per contenuto: quella più nota, pubblicata dall'ufficiale di fanteria E. Massa, fu sottoposta, col consenso dell'autore, a una pedantesca emendazione della forma dialettale; dell'altra furono pubblicati dall'antropologo criminale F. Cascella alcuni frammenti che, non avendo subito nessuna revisione linguistica, conservano un singolare fascino letterario, proprio per la scrittura rudemente espressiva.
Entrambi i testi, rari documenti della mentalità brigantesca, offrono nel complesso una fondamentale testimonianza sulle vicende di cui l'autore fu protagonista e sulle ragioni della sua condotta: sebbene egli mentisse su taluni fatti e sorvolasse su altri, ad es. tacendo i nomi dei suoi manutengoli, fu sostanzialmente sincero nel parlare di se stesso. Con sfrontatezza confessò la propria vocazione al "libero ladroneggio", esente da qualsiasi ipoteca ideologica, e rimpianse di avere asservito tale vocazione a esigenze politiche altrui, ammettendo peraltro di essersi lasciato indurre a ciò, oltre che dall'avidità di bottino, da un ingenuo desiderio di grandezza.
Morì nello stabilimento penale di Portoferraio (prov. di Livorno) il 18 giugno 1905.

FONTE: voce di L. AGNELLO in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1985, vol. 31

giovedì 8 agosto 2013

L'antica Lucania. 9. Grumentum

1. Grumentum, antica città della Lucania, era situata nel centro della regione e in posizione strategica importante nella valle del fiume Agri, antico Aciris. Entrò con i Lucani nella federazione romana. Con i Lucani passò ad Annibale nella seconda guerra punica, durante la quale Grumento è menzionata per la prima volta nel 215 a. C., per un fatto d'armi avvenuto lì presso fra Romani e Cartaginesi in cui i Cartaginesi avrebbero avuto la peggio; ma il fatto è di dubbia autenticità. In seguito, sembra che parteggiasse per Annibale, perché egli stabilì un accampamento (207) ai piedi della città. Anche questa volta avvenne uno scontro fra i Cartaginesi e i Romani, comandati dal console Claudio Nerone, finito favorevolmente per i Romani.
Tornò quindi in potere dei Romani che ne fecero probabilmente una prefettura, annoverata dal Liber Coloniarum. Nell'età dei Gracchi
vi fu dedotta probabilmente una colonia, retta da praetores duumviri. Durante la guerra sociale passò agl'Italici; riconquistata dai Romani, non ne ebbe probabilmente mutata la condizione. Sotto S. Gregorio Magno fu sede episcopale. Non sappiamo quando fu abbandonata o distrutta, ma nel 1095 già il vescovo si era trasferito nella vicina Marsico.
L. Holstenio ne ha identificato il sito su una collina situata circa un chilometro a sud dell'odierna Saponara di Grumento (in provincia di Potenza) dove si trovano notevoli avanzi di fabbricati in opera reticolata, tra i quali si possono riconoscere un teatro, un piccolo anfiteatro, un acquedotto, oltre alle mura della città, che alcune iscrizioni ci dicono erette, o restaurate, tra il 57 e il 51 a. C. dagli edili locali a loro spese.
2. La prima menzione della città è dovuta a due episodi militari di scarso rilievo, accaduti durante la seconda guerra punica: nel 215 a. C. il console T. Sempronio Longo vi batté Annone (ma la notizia probabilmente non merita fede); nel 207 a. C. il console Claudio Nerone vi riportò un successo su Annibale. Durante la guerra sociale Grumento parteggiò per gli Italici ed ebbe a subire un duro saccheggio. La sua condizione di colonia, attestata epigraficamente in età imperiale, risale forse all'epoca dei Gracchi. Iscritta alla tribù Pomptina, era amministrata da praetores, duoviri, aediles e quaestores.
Sede episcopale sotto S. Gregorio Magno, venne abbandonata probabilmente nell'XI sec., quando il vescovo si trasferì a Marsico Nuovo.
L'abitato antico era presso l'attuale Grumento Nova (già Saponara). Restano notevoli avanzi delle mura in opera quasi reticolata, due tratti delle quali furono costruiti nel 57 e nel 51 a. C., come attestano due iscrizioni. Il teatro è stato oggetto di scavi recenti, che ne hanno fatto porre le strutture parte in età augustea, parte in età tiberiana. Si annoverano anche imponenti ruderi di un acquedotto, di un complesso termale, di un anfiteatro, di monumenti sepolcrali. Si ha notizia epigrafica di un portico eretto nel 43 a. C. dall'architetto T. Vettius.
Dal territorio di Grumentum vengono alcuni notevolissimi bronzi greci, come una statuetta arcaica di cavaliere, attribuita a fabbrica tarantina, e un rilievo a sbalzo con Ercole che combatte contro un'amazzone, ambedue ora nel British Museum.

mercoledì 7 agosto 2013

Materiali didattici. 6. Tra Calabria e Basilicata: proposte per una storia "globale"

La zona nord-occidentale della Calabria è stata ampiamente indagata per quanto concerne l'antichità magno-greca e romana, nonché per il problema del brigantaggio; manca, tuttavia, uno studio d'insieme atto ad individuarne le caratteristiche in età moderna e, soprattutto, il carattere di "microstoria dinamica" che tale area presenta tra il Quattrocento ed il Settecento. In tal senso, bisogna partire proprio dall'assunto che la zona in questione, che giunge ad inglobare nei suoi processi evolutivi anche Maratea, presenti un costante carattere di dinamicità non ancora del tutto compreso ed indagato. Ciò in una visione volta ad evidenziare in primo luogo gli assetti urbani e rurali, partendo da quelle spie più macroscopiche dell'evoluzione storica che sono monumenti ed assetti urbanistici, per poi concentrarsi sulle istituzioni e sull'iconografia sacra, altro importante specchio dei cambiamenti socio-culturali.
Un primo passo è quello di affrontare appunto l'evoluzione dei contesti, ottenuti in primo luogo tramite l'analisi delle istituzioni, ma anche dell'onomastica, che giunge in soccorso della ricostruzione storica quando mancano le fonti d'archivio, tramite l'osservazione delle sedimentazioni che danno misura del tempo e delle dominazioni sul territorio. Un secondo passo è quello di analizzare, inoltre, i monumenti come prove del loro essere punti di raccordo ed accentramento in aree a forte vocazione strategica come quella dell'alto Tirreno cosentino, che assume una forte valenza di controllo commerciale poi persa con lo sviluppo urbano post-normanno.
Se l'assetto rurale è analizzato tramite il ricorso alle fonti monumentali e toponomastiche, in un secondo momento bisogna mirare alla ricostruzione, nel microambiente calabrese, degli effetti dell'interazione tra poteri locali e direttive ecclesiastiche.
Soprattutto l'organizzazione ecclesiastica rivela come, dopo il Concilio di Trento, nell'area nord-occidentale della Calabria si vengano costituendo fondamentalmente delle "piccole repubbliche cristiane" con un assetto istituzionalizzato e di tipo sociale, che fanno di confraternite ed altre iniziative della Chiesa vere e proprie organizzazioni para-istituzionali e proto-democratioche, che - come l'autore rileva con dovizia di riferimenti - avrebbero dato, specie nel XVIII secolo, un forte impulso al giurisdizionalismo riformatore. L'assetto istituzionale, rigorosamente definito e volto a coprire le sempre più numerose mancanze del potere nei vari ambiti, si nota specialmente negli statuti, che appaiono come codifiche regolari di elezioni e cariche, basati su un burocratismo "positivo" evidente nella diversificazione dei compiti e soprattutto nella volontà di non assolutizzare un capo unico e fisso come nel governo centrale. 
Gli statuti delle associazioni e delle Università marcano anche la volontà unitaria degli intenti dei loro membri, diretti a diversificare gli obiettivi pur perseguendo uno scopo unitario: si spiega, così, l'attenzione alle più minute regole di organizzazione dei compiti e degli ambiti su cui operare. Le stesse confraternite, con le loro iniziative come i Monti di pietà, si pongono come veri e propri punti di interscambio tra politica e Chiesa, in cui la consonanza di vedute permette al potere ed alle organizzazioni ecclesiali di interagire e migliorarsi a vicenda, in un'ottica illuminata basata su codici di condotta armonica tra due dimensioni percepite come diversi aspetti del vivere civile e che creano un nuovo fedele integrato nella società.
Accanto alla ricostruzione basata sulle fonti archivistiche, altrettanto fondamentale, inoltre, risulta l'analisi sociale fondata sull'iconografia e sviluppata in special modo sul complesso snodo della regione monastica del Mercurion.
In quest'ambito, risulta utile una lettura sub specie imaginis dello sviluppo socio-economico dell'ampio territorio tra Maratea e Scalea tramite l'analisi dei repertori iconografici presenti nelle chiese e visti come espressione evidente, come "visibile parlare" di problemi che affiorano chiari pur nell'apparente astoricità del soggetto religioso. Nel caso del basilianesimo, vanno recuperate le frammentarie testimonianze di diversi siti basiliani di età tardo-medievale per far notare come l'eredità del monachesimo italo-bizantino si protragga fino al XVI secolo, con strascichi "ecistici" e, in generale toponomastici. L'importanza del fenomeno venne compresa dalla Controriforma, che recupera la vitale attività socio-spirituale dei basiliani per contrapporsi al devozionalismo "dinamico" dei protestanti. Esempi del dialogo tra Chiesa tridentina e basilianesimo sono dati dai vari recuperi di temi artistici di tipo bizantino, come nell'amplissima diffusione di martiri orientali come San Biagio a Maratea, patrono dei cardatori della lana in un'area a grande sviluppo agricolo, e san Leonardo, patrono della semina.
Da un simile e variegato discorso socio-politico potrebbe emergere un progetto di storia globale, in cui le direttrici della "grande" storia si rispecchiano ed arricchiscono di valenze in un'area tradizionalmente ritenuta priva di storia ed immobilizzata nel ricordo di ciò che fu l'antichità.

martedì 6 agosto 2013

L'amministrazione del Regno di Napoli sotto gli spagnoli. 2. Le province

Il territorio del Regno era diviso in dodici province: Abruzzo Ultra, Abruzzo Citra, Terra di Lavoro, Contado di Molise, Capitanata, Principato Ultra, Principato Citra, Terra di Bari, Terra d'Otranto, Basilicata, Calabria Citra e Calabria Ultra. La Regia Corte contava, secondo la numerazione focatica, 481.512 fuochi, senza la città di Napoli e il suo distretto e la città di Benevento, enclave pontificia .
Ferdinando il Cattolico prima e Carlo V poi cercarono di trovare un corretto circuito amministrativo e giurisdizionale che potesse trasmettere alle periferie la volontà del potere centrale: nacquero, così, le Udienze Provinciali .
Napoli e la sua provincia, Terra di Lavoro, erano sotto la giurisdizione degli organi centrali, mentre alcune province erano comprese in un'unica udienza: infatti, inizialmente le udienze non erano più di sei, comprendendo Abruzzi, Capitanata e Contado di Molise, Principato Ultra, Terra di Bari e Terra d'Otranto, Principato Citra e Basilicata, Calabria. Al vertice di questa istituzione era un governatore o preside (solitamente la carica di governatore veniva ricoperta in parte da esponenti della "nobiltà di spada"), che deteneva funzioni di comando militare e di amministrazione giudiziaria, affiancato da tre auditori, un avvocato fiscale, un procuratore fiscale, mastrodatti, algonzini e un capitano di campagna. Per quanto riguarda l'amministrazione finanziaria, essa era retta dai percettori che, in ogni provincia, si occupavano del prelievo fiscale ordinario e straordinario dalle Università per poi rimetterlo alla Tesoreria Generale, oltre ad effettuare pagamenti e assegnazioni dovute .
L'amministrazione delle province, tuttavia, non era solo in mano ad Udienze e percettorie, ma da un alto numero di uffici radicati su tutto il territorio: uffici per la salvaguardia degli scali e i porti, con a capo i mastri portolani; dogane e fondaci, con 209 addetti che si distribuivano in 48 città, attraverso vari funzionari come doganieri, credenzieri, fondachieri, portolani, misuratori, pesatori e guardiani .
In questo ricco panorama istituzionale, sono evidenti, tuttavia, due aspetti negativi come l'atomismo e la dispersione delle cariche, causate dalla mancanza di un centro di coordinamento e di controllo provinciale che rendeva difficile il lavoro della Sommaria nel gestire il rapporto vertice-base e, dunque, un adeguato controllo sull'operato dei magistrati periferici.

lunedì 5 agosto 2013

La Basilicata contemporanea. 5. Studi sulll'emigrazione




A differenza di altre regioni , in Basilicata l'emigrazione rappresentò sicuramente il fenomeno che, più di ogni altro, ne cambiò il volto, spopolandola ampiamente e privandola delle sue forze più importanti. Cause molteplici e concomitanti l'avevano fatta nascere e prosperarein Basilicata: dalla miseria di larga parte della popolazione alle condizioni dell'agricoltura, dalla distruzione quasi completa dell'attività di allevamento al disboscamento, dalle pessime condizioni idrogeologiche a quelle igieniche, dalla cattiva amministrazione locale alla pressione fiscale. Data la vastità del fenomeno, a cominciare dall'unità d'Italia, su di esso si incentrarono subito gli studi del tempo in concomitanza con l'attenzione nascente della classe politica per una provincia giudicata, a ragione, tra le più povere del Regno.
 Solo all'inizio del nuovo secolo, dopo la visita di Zanardelli, allora presidente del Consiglio, nel 1902, si diede vita ad un primo intervento legislativo teso a sollevare le tristi condizioni della provincia. Quasi in concomitanza con tali iniziative l'emigrazione era stata studiata, innanzitutto con taglio di ricerca sociale, proprio da coloro che dovevano fornire un quadro attendibile alle autorità di governo. È il caso di Ausonio Franzoni (Tavernola 1859-Roma 1934), inviato da Zanardelli in Basilicata, che in una sua relazione documenta lo spopolamento del territorio e la povertà dei ceti rurali. Dalle statistiche allegate risulta, infatti, che la popolazione lucana passa da 539.197 abitanti, secondo il censimento del 1881, a 491.558 nel censimento del 1901.
Questi studi sull'emigrazione lucana, pur nella loro diversità, sono indubbiamente condizionati da finalità pratiche e da richieste della "committenza" ed avvengono in un momento spesso caratterizzato da specifici ambiti sociali e politici. Così il lavoro del Franzoni, condotto tra il 12 novembre e il 14 dicembre 1902, non può non risentire della natura dell'incarico affidatogli dal Governo, all'interno di una iniziativa promossa dal Commissariato per l'Emigrazione al fine di porre un freno ad un fenomeno che cominciava a fare preoccupare per le sue vaste dimensioni.
L'impostazione metodologica di molti lavori divergeva profondamente da quella utilizzata in campo nazionale, più generale e prevalentemente statistica, concentrandosi su "un approccio di micro analisi in cui l'osservazione del minuscolo, l'analisi di singoli casi, la descrizione di vicende locali apparentemente insignificanti e talvolta aneddotiche" si erano mostrate, in realtà, "laddove comparate con processi più generali, di grande importanza sul piano della comprensione". Di qui la consapevolezza, "non sempre formalizzata o esplicitata", di indagare le cause e gli effetti dell'emigrazione non basandosi soltanto sugli approcci statistici e sui dati ufficiali ma recandosi direttamente nelle località interessate.
Da vent'anni a questa parte, numerosi lavori scandagliano il fenomeno migratorio dalla Basilicata collegandolo a tematiche storiche più ampie, nazionali ed internazionali. Insieme a questa impostazione più generale stanno aumentando le ricerche sulle aree di arrivo dei flussi e su quelle di partenza. Lavori come quelli di Maria Schirone, di Felice Lafranceschina, di Ugo Calabrese e di Lucia Coviello aprono, infatti, un discorso non solo sui processi di integrazione nelle diverse nazioni, ma anche sui flussi migratori della seconda metà del Novecento. Un tentativo di fare il punto della situazione degli studi è stato fatto nel 1998 con la pubblicazione del numero monografico della rivista del Consiglio regionale della Basilicata dal titolo Lucani nel mondo, che ha ospitato il contributo di numerosi studiosi ed ha acceso i riflettori sulla vita delle comunità lucane all'estero. Proprio su quest'ultimo punto le istituzioni regionali, con la costituzione nel 1990 della Commissione regionale di lucani all'estero, hanno intrapreso numerose iniziative per collegare le diverse realtà e promuovere le ricerche sulla loro storia.

Le perle lucane. 2. Lagonegro

«Partiamo da Lauria dopo avervi passata la notte, ma ancor troppo presto per poterne discernere la posizione; abbiamo fatto ventotto miglia ...