lunedì 22 dicembre 2014

L'antica Lucania. 14. Banzi

Il sito dell'antica Banzi (gr. Βαντία; lat. Bantia) era collocato su un’altura prossima alla riva orientale del Bradano, al confine tra Apulia e Lucania.
Dal pieno VII fino a tutto il IV sec. a.C., secondo il modello tipico di quest’area, l’insediamento era formato da nuclei sparsi comprensivi sia delle strutture abitative sia delle tombe, spesso riutilizzate nell’intento di sottolineare la continuità gentilizia. La ceramica rinvenuta evidenzia la matrice daunia del sito, influenzata comunque dal contatto con la vicina Peucezia. All’incirca in coincidenza con la fondazione della vicina colonia latina di Venusia, nel 291 a.C., l’abitato, entrato nell’orbita romana, si contrasse in modo vistoso, con ogni probabilità a seguito del sorgere di pochi complessi di grandi dimensioni affini alle fattorie italiote. Uno di essi, esplorato in modo integrale, indica una frequentazione durata fino all’epoca della guerra sociale. Le vicende di Banzi nel corso di questo periodo, che vede il passaggio dalla condizione di civitas libera a quella municipale, sono documentate da una serie eccezionalmente ampia di testimonianze (la cui esatta sequenza e cronologia è oggetto di discussione), che include: un breve testo in alfabeto latino e in lingua osca che cita il tribunato della plebe; il templum augurale, che attesta la forte pressione sia delle pratiche cultuali che della lingua latina; la nota Tabula Bantina, che nella faccia in alfabeto e lingua osca, di certo redatta dopo quella in latino, fa riferimento al nuovo ordinamento municipale, peraltro documentato anche da un’ulteriore e più recente iscrizione latina. Gli scavi più recenti hanno permesso di saggiare l’estensione e la regolarità dell’impianto urbano, in uso almeno fino al IV sec. d.C. 

FONTE: Voce di A. BOTTINI, in Il mondo dell'archeologia, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2004.

giovedì 18 dicembre 2014

L'antica Lucania. 13. Il territorio in età imperiale

Il processo di romanizzazione, in atto almeno dai primi del III secolo, si configura come un momento di ulteriore profonda ristrutturazione socioeconomica della regione, che conserva comunque il suo aspetto di distretto rurale correlato a un numero ridotto di centri urbani, per lo più periferici rispetto alla sua estensione. Significativa appare soprattutto la concentrazione che si registra nella Lucania occidentale dove, oltre a Paestum, colonia nel 273 a.C., si contano le civitates foederatae (al pari di altre trasformate in municipia dopo il bellum sociale) di Eburum (Eboli), Volcei (Buccino), Arma (Atena Lucana), oltre all’importante centro di Forum Popillii (Polla). Nell’entroterra si possono invece annoverare solo Grumentum (Grumento), che peraltro si ricollega ancora al sistema appena menzionato, e Potentia (Potenza), insieme alla città (di cui non conosciamo pressoché nulla) che sostituisce l’indigena Serra di Vaglio. Sulla costa ionica si registra infine la continuazione delle antiche poleis: Metaponto esibisce tuttavia i segni di un’accentuata quanto precoce decadenza.
Nella divisione augustea dell'Italia la Lucania e i Bruzî formarono, uniti, la terza regione: limiti di essa a settentrione, verso la Campania, e ad oriente, verso l'Apulia erano rispettivamente il basso corso del Silaro (oggi Sele) e il Bradano: da quest'ultima parte pertanto Metaponto, con il suo territorio, entrava nella Lucania. Questa era a sua volta divisa dai Bruzî dal fiume Lao (Laino) sul Tirreno, dal Sibari (Coscile) e dal corso inferiore del Crati sullo Ionio. La regione, che nel periodo preromano aveva visto fiorire sulle sue coste le molte e ricche colonie greche, aveva ormai, dopo le molte guerre combattute sul suo territorio, fra Greci e Lucani, fra Lucani e Romani, dei Romani contro Pirro e contro Annibale, e il conseguente spopolamento, perduta gran parte della sua prosperità economica: così durante tutto l'impero la parte che essa rappresenta nella vita d'Italia è di secondaria importanza. Nella Lucania, paese arido e montuoso, sono larghe estensioni di pascoli e di terre quasi deserte: scarsissime sono le città; i Bruzî conservano un poco di floridezza soltanto nelle zone più prossime al mare, soprattutto sul versante tirreno. Dal punto di vista amministrativo, quando dalla metà del sec. II d. C. si ebbero anche per l'Italia funzionarî imperiali (iuridici, procuratores ad alimenta, ecc.) la terza regione fu assai spesso riunita con la seconda, l'Apulia, o con la parte estrema peninsulare di essa, la Calabria, l'attuale penisola salentina.
Con la riforma dioclezianea la regione acquistò ordinamento autonomo di provincia, retta da un corrector; i suoi confini vennero tuttavia leggermente mutati, in quanto, verso Oriente, ne fu distaccata Metaponto, passata alla Calabria, e verso settentrione le fu invece aggregato il territorio di Salerno, che prima faceva parte della Campania; mutarono fors'anche i confini interni fra la Lucania e i Bruzî: ché Buxentum passò da questi a quella. La residenza del corrector, che era alle dipendenze del vicarius Urbis Romae, era normalmente a Reggio (Rhegium Iulium): sembra però che talvolta esso si trasportasse a Salerno.
Arteria principale della regione era la via Popilia, costruita nel 159 a. C. dal censore M. Popilio Lenate (secondo altri nel 132 dal console P. Popilio); essa, venendo da Capua, entrava, attraverso il Silaro, nella Lucania, e, tenendosi dapprima nell'interno lungo la valle del Tanagro e l'alta valle del Crati, e scendendo poi sul mare, raggiungeva Reggio: sue stazioni principali erano Acerronia, Forum Popilii, Marcelliana, Nerulum, Consentia, Tempsa, Vibo Valentia, Tauriana, Rhegium.
Dalla Popilia una strada si distaccava a Nerulum, e per Grumento e Potenza, le uniche due città notevoli dell'interno della Lucania, si dirigeva verso Venosa: l'ultimo tratto di essa verso l'Apulia coincideva con la via Erculia. Altre due vie stabilivano le comunicazioni lungo i due litorali: una da Tempsa a Paestum sul Tirreno, l'altra da Reggio a Metaponto sullo Ionio; un'ultima breve strada tagliava la punta dello stivale, nel punto più stretto, da Vibo Valentia a Squillace.

FONTI: Voce di P. ROMANELLI, in Enciclopedia Italianahttp://www.treccani.it/enciclopedia/lucania-e-bruzio_(Enciclopedia-Italiana)/, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1934; voce di A. BOTTINI, in Il Mondo dell'Archeologia, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2004.

lunedì 15 dicembre 2014

La Basilicata medievale. 4. Melfi tra normanni e Svevi

La città, fondata all'inizio dell'XI secolo dai bizantini, dopo l'insediamento dei normanni, capeggiati dai fratelli Altavilla, fu considerata la "capitale morale della conquista della Puglia", dove si svolsero le assemblee e i sinodi più importanti. Fu, accanto a Venosa, Troia e Salerno, una delle quattro "ducales urbes" del ducato di Puglia. La sua sede vescovile era immediatamente sottomessa alla Sede Apostolica. In epoca normanno-sveva Melfi era la città più grande della Basilicata e ospitava comunità di mercanti amalfitani e di ebrei. Dopo la morte di Roberto il Guiscardo (1085), la città perse il suo ruolo centrale in seguito al trasferimento del potere ducale a Salerno e alla successiva unificazione politica del Mezzogiorno d'Italia con Palermo come capitale. Soltanto tra l'estate del 1127, quando Ruggero II rivendicò il ducato di Puglia come eredità di suo nipote ‒ il duca Guglielmo era deceduto senza eredi ‒, ed il 1139, anno dell'affermazione definitiva del dominio di Ruggero II sul Mezzogiorno peninsulare, Melfi fece regolarmente parte dell'itinerario regio, comprendente le città ducali, che si snodava di solito da Salerno a Troia e da qui (via Ascoli) a Melfi per poi terminare di nuovo a Salerno. Nel settembre 1129 Ruggero II tenne a Melfi una dieta nella quale, alla presenza dei baroni e prelati dell'Italia meridionale, fu proclamata una pace generale, e qui, nel 1132, lo stesso Ruggero II, ora re, richiamò i baroni alla fedeltà. Nel 1153 il sovrano fece costruire a Melfi il campanile della cattedrale che, con i suoi leoni, simboli del potere regio, doveva esortare la popolazione all'ubbidienza.
Nella seconda metà del XII secolo Melfi era pienamente consapevole della propria forza: così, per affermare il dominio sul territorio circostante distrusse, nel 1183, la vicina Rapolla. Sotto Federico II, che risiedette spesso e volentieri in Capitanata, Melfi, dopo essere stata per più di un secolo lontana dal cuore del potere, si trovò improvvisamente di nuovo vicino al centro decisionale. In particolare nel periodo estivo, quando il caldo nel Tavoliere diventava insopportabile, l'imperatore si ritirava spesso sulle montagne della Basilicata, dove trovava un ambiente ideale per la caccia. Scrive infatti Giovanni Villani di Federico II: "Fece il parco dell'uccellagione al Pantano di Foggia in Puglia, e fece il parco della caccia presso a Gravina e a Melfi alla montagna. Il verno stava a Foggia, e la state alla montagna alla caccia a diletto". Federico II risiedette a Melfi a più riprese: nel settembre 1230, dalla fine di maggio al settembre 1231, nelle estati del 1232, del 1242, del 1243, del 1246 e del 1247.
Da quando l'imperatore, a partire dal 1227, soggiornò prevalentemente in Capitanata, a Melfi arrivarono ospiti illustri da varie parti del mondo: nell'estate 1227 il langravio Ludovico di Turingia, marito di s. Elisabetta, venuto per partecipare alla crociata; nel gennaio 1230 il vescovo di Reggio Emilia, Nicola, ed Ermanno di Salza, Gran Maestro dell'Ordine teutonico, inviati dal papa per preparare la pace con Federico II; nel settembre 1230 Demetrio di Monferrato, re di Tessalonica (1209-1223), che morì improvvisamente e fu sepolto nella chiesa di Ognissanti; nel luglio 1232 messi di al-Malik al-Kāmil, sultano d'Egitto, che portarono un prezioso regalo. Fu anche a Melfi, esattamente il 9 agosto 1232, che il "magister" Enrico di Colonia nella casa del "magister" Volmaro, medico dell'imperatore, eseguì una copia del trattato De animalibus di Avicenna, tradotto da Michele Scoto dall'arabo in latino.
Durante il soggiorno più lungo di Federico II a Melfi, durato dal 26 maggio al 10 settembre 1231, furono redatte e promulgate le celebri Constitutiones, dette comunemente Costituzioni di Melfi. Alle consultazioni preparatorie per questa grande opera legislativa partecipò anche il vescovo di Melfi, Richerio (1215-1232), che fu uno dei consiglieri più fidati dell'imperatore. A differenza del suo predecessore, il quale aveva causato non pochi scandali, Richerio fu un buon pastore della sua diocesi, ma anche un abile diplomatico e un valente militare. Nel dicembre 1219 partecipò alla dieta di Augusta nella Germania meridionale e nel 1221 presiedette, per alcuni mesi, come "magister iustitiarius" il tribunale della Magna Curia dell'imperatore. Tra il 1225 e il 1227 Richerio lo rappresentò in Terrasanta e nel 1231-1232 comandò la prima squadra della flotta di Federico II che attaccò Cipro ed espugnò Beirut. L'itinerario internazionale del vescovo, che ritornò a Melfi prima dell'estate 1232, è una riprova dell'importanza acquistata dalla città al tempo di Federico II.
Il castello di Melfi ‒ nel quale Federico II consolidò il preesistente nucleo normanno (corrispondente all'attuale Museo Archeologico Nazionale) e fece innalzare tre nuove torri (la Torre del Marcangione, la Torre dei Quattro Venti e la Torretta "parvula"), nonché forse anche il pianterreno del palazzo angioino detto oggi "salone degli armigeri", e alla cui manutenzione erano obbligati gli abitanti di Melfi, Monticchio, S. Andrea di Statigliano e Venosa ‒ diventò nel 1239, accanto ai castelli di Bitonto, Napoli e Nicastro, uno dei luoghi dove i "recollectores pecunie" dovevano depositare il danaro raccolto. Sembra però che si sia trattato di un provvedimento soltanto temporaneo. Più importante fu l'istituzione, a Melfi, della centrale corte dei conti, voluta nel maggio 1240 da Federico II. Era la prima volta nella storia del Regno che veniva istituito un ufficio centrale indipendente dalla "curia" itinerante. Presieduta da tre "racionales curiae", Angelo de Marra, Tomaso da Brindisi e Procopio di Matera, la corte dei conti di-spose di venti collaboratori inclusi due notai. La sua sede era ubicata sia nel castello, sia nel palazzo vescovile di Melfi. Nel giugno 1241 Andrea Cicala, capitano e maestro giustiziere, riunì a Melfi i prelati del Regno per farsi consegnare i tesori delle loro chiese, che servirono per il finanziamento della guerra in corso, tesori che furono poi, nell'agosto 1241, depositati a San Germano.
Il tentativo di istituire a Melfi un'amministrazione centrale della corte dei conti, per quanto notevole e innovativo, era però di difficile realizzazione, perciò, dopo poco tempo, si tornò a dividere l'ufficio unico: uno per la terraferma, con l'esclusione della Calabria, e un altro per la Sicilia e la Calabria. Nel 1247-1248 si procedette a un'ulteriore decentralizzazione: la corte dei conti di Barletta, competente per la terraferma a eccezione della Calabria, fu sciolta e divisa in tre "scole ratiocinii", di cui una a Melfi, una a Caiazzo e una a Monopoli.
Manfredi, figlio e successore di Federico II, nato forse a Venosa o in uno dei castelli tra il Vulture e le Murge, risiedette spesso nella zona del Vulture, ma preferì a Melfi il castello di Lagopesole. Quando, nell'ottobre 1254, si trovò in gravi difficoltà, Melfi, fedele al papa, gli chiuse le porte della città, mentre la vicina Venosa lo accolse a braccia aperte. Non è attendibile la notizia del cronista Bartolomeo di Neocastro, secondo cui la morte di re Corrado IV, il 21 maggio 1254, sarebbe avvenuta a Melfi.

FONTE: Voce di H. HOUBEN in Federiciana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005.

giovedì 11 dicembre 2014

Materiali didattici. 24. Il brigantaggio postunitario secondo il fascismo (1930)

Cacciato dal trono delle Due Sicilie, Francesco II pensò ai modi di poter subito far ritorno nel regno. E come al sorgere del secolo XIX, Ferdinando IV di Borbone, profugo e sconfitto, aveva incitato e sobillato le turbe plebee contro i novatori giacobini, così, nel 1860, Francesco II, giovandosi di aiuti e complicità varie, italiane ed europee, rinnova lo stesso tentativo, tendendo la rete di una vasta e ben organizzata congiura che in breve avvolge quasi tutto il Mezzogiorno. Secondo le carte sequestrate all'avventuriero inglese James Bishop, la forza reazionaria di tutto il Napoletano facente capo al presidente e direttore supremo del Comitato centrale di Napoli, il barone Achille Cosenza, era, nell'aprile 1862, di 80.702 uomini, dei quali 16.353 armati: non compresi gli uomini di 22 paesi del Beneventano e di alcuni paesi limitrofi a Napoli, e i gregarî di quattro forti bande di briganti. I primi nuclei di quelle segrete formazioni militari furono costituiti dalle bande brigantesche che, al cadere del 1860, bivaccavano per gli Abruzzi, per Terra di Lavoro, per le Puglie, per la Basilicata; cui si aggiunsero renitenti di leva, disertori, truppe dell'ex-esercito borbonico, evasi dalle carceri e, infine, tutti coloro che, con cieca larghezza, erano stati graziati nei primi giorni del moto insurrezionale del '60.
Questi elementi giunsero in paese quando la rivoluzione liberale aveva spostato il centro di gravitazione degl'interessi, del credito e delle fortune di ceti e di famiglie, molti aveva cacciato di ufficio, molti più minacciava di cacciare, tra essi preti e frati.
Gli esclusi fremevano (designavano nel loro cuore i capi del movimento liberale di cui si ripromettevano, alla prima occasione, di fare giustizia sommaria ed esemplare), anelavano alla riscossa. Intanto, le più strane dicerie di prossima restaurazione si diffondevano; fole e sobillazioni, diffuse in numerosi proclami, correvano sulle bocche del popolo, facilmente credulo. Non pochi, infatti, ritenevano che quel profondo mutamento di leggi, di uomini, d'istituti, di ordinamenti, portato dalla rivoluzione del '60 non potesse durare a lungo. I mutamenti e i rimutamenti dal 1799 in poi, le cacciate e i ritorni dei Borboni, le insurrezioni fortunate, consolidate dall'assenso regio ma poi represse nel sangue, le costituzioni date e poi ritirate, le tempeste che avevano scosso il corpo sociale e politico delle Due Sicilie, da cui però i Borboni erano usciti vittoriosi, davano la sicurezza e la speranza che anche questa volta si sarebbe tornati, prima o poi, al vecchio ordine di cose. Era negli animi della stragrande maggioranza la speranza o il timore che ancora una volta, come al chiudersi delle guerre napoleoniche, come nel '21, come nel '48-'49, l'Austria, varcato il Po, avrebbe detta l'ultima parola sui fatti d'Italia. Davano esca alla reazione la novità e la gravezza dei carichi tributarî. Il duro fiscalismo riusciva tanto più intollerabile, in quanto il nuovo regime amministrativo riversava dal Piemonte sul resto d'Italia anche una notevole quota dei debiti degli antichi stati Sardi in un momento in cui l'economia meridionale, già di scarsa capacità, entrava in una crisi acuta, per la profonda e concitata evoluzione che la società attraversava e per la vittoriosa concorrenza delle più progredite industrie settentrionali. Per effetto del nuovo regime doganale era aumentato il prezzo del pane, era cresciuto quello del sale; il popolo lamentava di essere "trattato peggio dei cani". Un ignoto poeta della Calabria, interprete in questo del sentimento comune, attribuiva tutti questi mali all'unità d'Italia, alla "colpa" d'essere stati "liberati". Su questo scontento di plebi e di piccoli borghesi, sul rancore di funzionarî licenziati, sulle defraudate ambizioni e sulle ribalderie incredibili di bassi politicanti, soffiava la propaganda che veniva da Roma e dai comitati borbonici. Questi elargivano somme di denaro, insinuavano che i "proletarî atti a marciare" avrebbero ricevuto 5 0 6 carlini al giorno e, dopo la restaurazione borbonica, una pensione annua di 200 ducati; che ai capi del movimento sarebbero toccati, come per l'addietro, elevati gradi militari e dignità cavalleresche; che il re Francesco avrebbe ripartite fra il popolo le terre demaniali usurpate dall'avidità dei "galantuomini". Era, questa, una vecchia questione, nel Mezzogiorno: specialmente grave dagli inizî del sec. XIX, da quando cioè le terre demaniali erano diventate per buona parte proprietà privata. Aspirazione viva di contadini, di artigiani, di piccola borghesia, di nullatenenti era di rivendicare e quotizzare queste terre. E spesso vi avevano fatto invasioni e violenze. Così, nella restaurazione borbonica del 1815 e nella rivoluzione del 1821. Così, nel '48, mentre le classi medie festeggiavano la costituzione, le masse agricole sorde alla causa della libertà, s'erano agitate per la spartizione delle terre. Così, nell'agosto 1860, mentre la visione delle camicie rosse e l'ideale della nazione italiana infiammava gli animi dei liberali, la folla a Matera aveva tumultuato per la divisione delle terre, incendiato l'archivio comunale dov'erano conservati i titoli di possesso, fatto uccisioni e incendî nel nome di Francesco II; di là il fuoco delle sedizioni s'era diffuso in numerose località della Basilicata e delle Puglie. Il contadiname, nella sua follia anarchica, aveva messo in un sol fascio impiegati, "galantuomi" e liberali, e minacciato in blocco contro tutti lo sterminio generale. E quando lo stato era intervenuto per ristabilire l'ordine in città, la resistenza era continuata nelle campagne, e contadini, pastori, braccianti, affamati di terra, avevano affiancato i briganti e con questi avevano preso vendetta dei "galantuomini" e delle loro proprietà. Toccavano, dunque, una corda ben sensibile i capeggiatori del movimento borbonico, quando promettevano ai contadini la quotizzazione delle terre demaniali!
Il nuovo stato unitario italiano si trovò impreparato a fronteggiare le torme brigantesche, i contadini rivoltosi, i borbonici, che presentavano contro di esso un fronte unico. Le forze militari erano accampate sul Po, a fronteggiare le minacce austriache. Il potere politico, debole ancora, tanto poté governare quanto lo permise il beneplacito o la tolleranza dei poteri municipali ai quali, per giunta, furono affidati anche i poteri di polizia: ciò che diede o accrebbe armi e facilità di prepotere alle partigiane fazioni municipali. Di qui l'incendio della reazione e del brigantaggio. La scintilla si accese in Basilicata, che aveva più compatti e più numerosi i suoi nuclei di malandrini. Passati in quel di Potenza e di Melfi, essi, al principio del 1861, erano già provvisti di cavalli e facevano segreti arruolamenti. Facile fu ad essi far sollevare il 7 aprile '61 la plebe di Lagopesole, d'intesa, pare, con gente sbarcata nella Valle di Policastro sul Tirreno, nella selva di Policoro sull'Ionio, e con comprovinciali di altri paesi che avrebbero dovuto operare un'insurrezione generale. A quel moto risposero una diecina di paesi di tutta la Basilicata, sollevantisi per questioni demaniali o per restaurare il tramontato regime borbonico. Diffusa la promessa di facili ricchezze, allettati anche dalla facilità con cui s'era compiuta l'insurrezione lucana, cui molti di essi avevano partecipato armati, da Lagopesole, dai vicini casali di Avigliano, dove vengono ricevuti con le bianche bandiere borboniche, attraverso i boschi, vanno a Ripacandida, a Ginestra, a Venosa, a Lavello, dove, ben accolti per segrete intelligenze con la plebe tumultuante, o vittoriosi della resistenza dei "galantuomini" o dell'assoldata milizia civica, restaurano il caduto regime borbonico, aprono le carceri, distruggono gli archivî, "mortali nemici nostri", come confessa con candore Crocco, uno dei loro capi, rubano ed ammazzano, incendiano le case di non pochi benestanti in fama di liberali. Così a Melfi - alle cui porte erano usciti ad incontrare "il liberatore" due carrozze piene di guardie d'onore, di preti ornati di medaglie borboniche, recanti bandiere bianche e frange d'argento e galloni d'oro che le signore avevano ricamato la notte precedente - furono accolti con feste e luminarie, tra frenetiche acclamazioni anche di notabili del posto, che li credettero soldati del regime borbonico. E il "generale" Crocco osò pubblicamente ringraziare la Vergine, su un inginocchiatoio preparato nella pubblica via. Così a Rapolla, così a Barile. Le milizie urbane, composte di plebe disinteressata alla lotta o, se mai, simpatizzante coi briganti, o formate di civici e di benestanti, irresoluti e disorientati, non potettero fronteggiare quel moto; e solo in una breve fazione tra Rionero e Basile si scontrarono coi briganti e li costrinsero a ripiegare nell'Avellinese. Appena il 15 aprile, otto giorni dopo l'inizio della reazione, dopo molte richieste giunsero a Potenza 250 soldati, ed altrettanti da Eboli per la via Valva furono avviati nel Melfese, mentre i briganti si ritiravano nelle loro sedi di Lagopesole.
A questo moto della Basilicata risposero immediatamente le bande brigantesche bivaccanti nelle Calabrie, nella Campania, negli Abruzzi, in Puglia. In quest'ultima regione, a mezzo luglio '61, infuriava la reazione, capitanata da numerose bande di saccomanni: fra le quali si distinse per ardimento quella d'un sergente del disciolto esercito borbonico, Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle, diretta contro i "galantuomini" e la guardia civica che era composta di professionisti, di proprietarî terrieri, di capi d'arte. All'originario nucleo di malandrini e di grassatori si aggiunsero, dopo il primo giugno del 1861, i renitenti della prima leva ordinata dal governo di Torino nell'Italia Meridionale (per la sola Basilicata oltre 2000, su circa 2700 soggetti alla leva!): fomento per qualche tempo e riserva di briganti, se non tutti ancora briganti in attività di servizio. Ebbero tutti un capo militare nel catalano Don José Borjes, ufficiale dell'esercito spagnolo proclamatosi generale, che, reduce dai sanguinosi moti carlisti in Spagna, s'era messo a servizio del comitato borbonico di Marsiglia, ed era sbarcato da Malta a Brancaleone di Calabria, il 13 settembre 1861, a capo di una trentina di ufficiali e di soldati spagnoli, sicuri di trovare l'unanime consenso della popolazione e di compiere un moto politico. Di bosco in bosco, respingendo o sfuggendo le milizie cittadine, toccano l'11 ottobre i confini della Basilicata, s'uniscono alla torma di un antico masnadiero tre volte fuggito alle galere, il Sarravalle, ed al francese Langlois. E con loro, assaltano e derubano una quindicina di paesi del Lagonegrese, del Potentino e del Salernitano. Poi si riducono a Lagopesole; e di lì, poco dopo, a Monticchio, sede della banda del Crocco. Qui, il 28 novembre '61, avviene un colpo di scena: Crocco ed i suoi disarmano i soldati spagnoli, prendono loro i fucili rigati e a percussione, e dichiarano di voler fare da sé. Pochi giorni dopo, il Borjes, mentre, traversato il Reame, si apprestava a passare il Lonfine dello Stato pontificio con un gruppo di pochi fidi, finiva moschettato dai bersaglieri italiani a Tagliacozzo. Fuori di Basilicata, le bianche bandiere erano sventolate da altri condottieri borbonici, reazionarî politici e briganti nel medesimo tempo, tra i quali degno di ricordo è l'ex-sergente Romano, che con la sua banda giura di "far rispettare i stendardi del nostro re Francesco II da tutti i comuni subordinati dal partito liberale".
Con la morte del Borjes, col disanimarsi dei comitati borbonici, anche perché l'Austria non poté o non volle prendere a cuore la causa dei Borboni, si può dire finisca il brigantaggio politico e s'inizî o prevalga quello più aspro, di carattere esclusivamente sociale, di violenze e di ruberie. Se fra i tanti che scorrazzavano armati nel regno di Napoli intorno al'60, relativamente pochi erano i briganti che avessero fatto quel mestiere prima della reazione, in seguito essi furono numerosissimi. Materia c'era perché il brigantaggio rinfoltisse le sue schiere. Odî, rancori, cupidigie covavano dappertutto in Basilicata, in Puglia, in Calabria, fra contadini e pastori e plebe urbana, contro notabili e borghesi; e spesso esplodevano all'avvicinarsi delle bande brigantesche i cui capi a tutti promettevano mari e monti e, specialmente, il saccheggio. Ciò che spiega come i pochi avventurieri, sia pure spalleggiati da disertori dell'esercito borbonico, potessero produrre quel terribile sconvolgimento che in soli tre anni, dalla fine del'60 in poi, gettò alla campagna migliaia e migliaia di briganti, creò diecine e diecine di bande brigantesche, dal Molise, dal Beneventano, dalla Campania fino alla Penisola Salentina e all'estrema Italia: bande agguerrite e formidabili, che infestavano il paese, bloccavano le vie, impaurivano e ricattavano i possidenti, impedivano il traffico, rendevano impossibile, nonché la vita nelle campagne, persino la dimora strettamente necessaria per la coltura della terra. Le più famose e le più audaci erano quelle di Basilicata e delle provincie vicine: quella, ad esempio, di Crocco che aveva a suo fido il ferocissimo e codardo Giovanni Nicola Summa (detto Ninco Nanco).
Le truppe, insufficienti al bisogno, ignare dei luoghi e del dialetto, ingannate dai manutengoli di dentro e colte in tranelli dai briganti nella campagna, nonostante il loro sacrificio ed il loro indiscusso valore, non riuscirono ad impedire che la piaga divenisse sempre più generale nel Mezzogiorno. D'altra parte, la nuova Italia non intese la gravità e la complessità di quel fenomeno politico e sociale. Quando, nel Parlamento, qualche voce di meridionale si levava per implorare rimedî, c'era nel resto dei presenti la preoccupazione di stendere un velo su quelle miserie domestiche. La realtà finì con l'imporsi, dopo che molte generose vite di soldati erano state spente. Una commissione parlamentare d'inchiesta, di cui fecero parte Bixio, Saffi, Sirtori, Massari, Castagnola, ritenne che non fossero sufficienti le leggi ordinarie, e propose una legge eccezionale che fu presto votata. Questa, dovuta all'on. Pica, istituì consigli e tribunali di guerra, che usassero la maggiore speditezza nell'inquisizione e nell'esecuzione; istituì squadriglie di cavalleria borghese; demandò all'arbitrio di giunte provinciali di pubblica sicurezza di deferire alla giurisdizione militare o d'inviare a domicilio coatto vagabondi e favoreggiatori; emanò provvedimenti d'indole sociale, morale ed economica; dispose perché fossero sorvegliate le autorità municipali, uomini troppe volte senza fede politica; ordinò la chiusura di masserie ch'erano ricetto di briganti; restrinse al puro necessario le provviste alimentari delle campagne e vigilò il traffico di contadini e di braccianti dal paese alla campagna; dispose infine che fossero concentrate poderose forze di ogni arma. Queste, secondo calcoli autorevoli del colonnello Cesari, tra il finire del'62 e l'inizio del'63, ascesero per tutto l'antico reame a circa 120.000 uomini, cioè a quasi la metà dell'intera forza armata italiana. Vi fu impiegata in due riprese e con buon successo, anche la legione ungherese, già garibaldini. Legge terribile, dai procedimenti sbrigativi e sommarî, la quale, se ebbe qualche lato buono (es. la costruzione di strade, la discussione sul Tavoliere delle Puglie e la sottoscrizione nazionale per le vittime del brigantaggio), fu purtroppo anche strumento di dispotismo arbitrario e furibondo, arma delle fazioni municipali e famigliari. Furono infatti condannati proprietarî innocenti; in odio politico ad alcuni, vennero fabbricati falsi documenti a loro carico e tirati fuori centinaia di falsi testimonî. Nella sola Basilicata, la più infetta per vero di lue brigantesca, furono incarcerate per complicità o sospetto o aderenze ai briganti ben 2400 persone, condannate al confino forzoso ben 525, tra cui 140 donne.
Ma se non per la sostanza e per l'applicazione della legge Pica, certo per gli espedienti e i mezzi che lo stato autorizzò e mise in opera, il brigantaggio venne debellato. La vittoria tuttavia si delineò sicura, solo quando si creò nell'opinione pubblica la convinzione che lo stato voleva energicamente curare la piaga del brigantaggio, punendo senza pietà i colpevoli e premiando chi fornisse indizî o operasse con frutto. Conseguenza di questo nuovo concetto fu l'impiego di larga forza militare, a piedi e a cavallo, che occupasse i paesi, stabilisse dei cordoni per chiudere sbocchi e vie di passaggio tra un luogo e l'altro, esercitasse una pronta, intensa, instancabile persecuzione contro i briganti, fino a costringerli ad aperto conflitto e batterli. Gran parte del merito di questa nuova tattica toccò al generale Pallavicino, che nel Beneventano, nelle Murge di Minervino, nel Melfese decimò e stremò il brigantaggio. Accentrando nelle sue mani tutti i comandi fino allora frazionati, riducendo alla sua dipendenza tutte le autorità politiche delle regioni, stimolando con l'esempio i suoi subordinati, vestendo manipoli di soldati a mo' di briganti, guadagnandosi a sua guida intelligente ed astuta un Caruso di Atella, vecchio masnadiero della banda Crocco, il generale si diede ad un inseguimento instancabile e tenace dei briganti, anche durante l'inverno, rendendo loro difficili i rifornimenti, impedendone i collegamenti, avviluppandoli, battendoli, decimandoli. Dopo molti mesi di quest'azione energica il brigantaggio fu sgominato. Quando, nell'agosto 1864, Crocco, dopo un conciliabolo con i suoi nel bosco di Sassano, in cui fu discusso se costituirsi volontariamente o rifugiarsi in terra straniera, passò, sano e sconosciuto, i confini dello Stato pontificio, delle vecchie terribili bande rimanevano pochi e sparsi frammenti erratici, spauriti e senza capi. Nel'65, il brigantaggio traeva gli ultimi aneliti e se per qualche anno vi furono ancora alcuni casi isolati di delinquenza brigantesca, a reprimerli bastarono i mezzi ordinarî di polizia.

FONTE: Voce Brigantaggio in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1930.

lunedì 8 dicembre 2014

giovedì 4 dicembre 2014

Paesi lucani. 24. Miglionico nel Settecento


FONTE: L. GIUSTINIANI, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, Napoli, s.e., 1803, t. VI, p. 17. 

lunedì 1 dicembre 2014

Paesi lucani. 23a. Il polittico di Cima da Conegliano a Miglionico

L'opera  arrivò a Miglionico, così come ricorda una tradizione locale, perché acquistato da Don Marcantonio Mazzone, arciprete del paese, nel 1598. Il primo apprendistato avviene nel suo paese di origine con Dario da Treviso, ma già negli anni 80 sarà a Venezia, dove, forse frequentò la bottega di Alvise Vivarini, l'artista a cui sembra ispirarsi nel periodo giovanile, ma i modelli della sua produzione matura saranno Giovanni Bellini e Antonello da Messina.
Questi, quindi, i referenti culturali del nostro artista, che ben presto "... assimilò la lezione di Antonello, basata sulla resa monumentale delle figure con il punto di vista ribassato, ripresa da G. Bellini, facendo sì che la figura proponga un'idealizzante lisciatura di volumi, una quiete di rappresentazione che rende un effetto di solenne classicità che è quasi greca" (L. Menegazzi - C. da Conegliano).
Ritroviamo queste considerazioni nell'impaginazione iconografica del "nostro" polittico che strutturalmente è molto vicino a quelli di Olera (1486/1488) e di S.Fior.
La lezione dei maestri viene, quindi assimilata e fatta propria da Cima, che, comunque, non sarà mai un freddo imitatore. Anche nelle tavole di Miglionico possiamo cogliere quel sentimento panteistico della natura, che non è mera accademia e che invece esalta il mistero dell'immagine sacra. I luoghi della memoria, intesi come tempo della purezza, lui più volte riprenderà in molti suoi capolavori: le colline della sua Conegliano con le torri medioevali, assurgono a spazio ideale in cui il fatto religioso può svelarsi ai nostri occhi, perché solo i lunghi silenzi della natura possono accogliere l'armoniosa rivelazione del sacro che è sublimazione della passionalità umana, il dramma viene così ad essere escluso, perché estraneo alla natura divina.
Quel drappo sottile, citazione da Antonello e Giovanni, che quasi impercettibilmente funge da quinta al trono marmoreo della pensierosa Madonna, non è cesura netta con il mondo dei fenomeni, anche se la brezza che disperde le rade nuvole non può scomporre le pieghe cristalline del manto della Vergine. Le figure dei Santi Francesco, Girolamo, Pietro e Antonio da Padova, descritti a tutta altezza, poggiano su di una lastra marmorea che che crea il primo piano di un profondissimo cannocchiale prospettico che si perde nel chiarore dell'orizzonte, segnato dalle colline alle loro spalle.
La monumentalità serena e pacata di questi dottori della chiesa si stempera nel caldo abbraccio della campagna e il sapiente uso dei chiaroscuri attenua l'imponenza dei volumi. Il restauro, effettuato negli anni 60 dall’ICR di Roma, ha eliminato le ridipinture, effettuate, forse, nel 1782, che hanno purtroppo rivelato gravi lacune nella superficie pittorica; inoltre, si è meglio palesato l'intervento della bottega nei santi della predella, così come avevano ipotizzato il Pallucchini e lo Hienemann, per il quale è pure di bottega l' "Annunciazione" della cimasa, forse, di Giovanni Martini (a tal proposito il Berenson osservava che la Vergine Annunziata gli pareva atteggiata come quella di Antonello).

Le perle lucane. 2. Lagonegro

«Partiamo da Lauria dopo avervi passata la notte, ma ancor troppo presto per poterne discernere la posizione; abbiamo fatto ventotto miglia ...