giovedì 8 gennaio 2015

Risorgimento lucano. 16. I martiri del 1799 a Picerno tra storia e storiografia

La presa di coscienza rappresentata dalla rivoluzione napoletana impressionò profondamente i contemporanei ed i posteri, posti di fronte all'apparente paradosso di un popolo che, da secoli assuefatto alle popolazioni straniere e pronto a ribellarsi solo per la “gola”, si dava finalmente la forza per cacciare il sovrano, darsi proprie leggi e governarsi fidando nell'aiuto straniero solo come temporanea forza di appoggio militare.
In tal senso, accanto agli esempi parenetici, tratti dall'antico, che incitavano ad emulare le glorie civiche del lontano passato greco-romano, gli eventi del 1799 assunsero, nella retorica risorgimentale italiana e, in quest'alveo, meridionale, un carattere emulativo volto al recupero della coscienza civica e dell'identità locale di contro allo straniero. Sollevazioni, resistenze, sacrifici vennero letti come stigma del martirio delle popolazioni che finalmente si riunivano compatte contro l'invasione, fosse straniera o, peggio, dello stesso tiranno borbonico. In tal senso, la costruzione di questo “mito insurrezionale” sarebbe stata portata avanti con forza lungo tutti gli snodi del Risorgimento, dalla rivoluzione costituzionale del 1820-21 alla “primavera dei popoli” del 1848 all'insurrezione dell'agosto 1860 ed oltre, nella costruzione dello Stato unitario. In questo ambito va collocato l'episodio picernese.
Il primo a citare gli eventi di Picerno, informato probabilmente dai lucani fratelli Addone e dal picernese Tommaso Cappiello, conosciuti a Milano, fu Vincenzo Cuoco nel celebre Saggio Storico sulla Rivoluzione di Napoli. Introducendo la narrazione come esempio del fatto che “la nazione napolitana bramava veder riordinate le finanze (…). Questo era il voto di tutti: quest'uso fecero della loro libertà quelle popolazioni, che da per loro stesse si democratizzarono”.
In quest'ambito, il Cuoco riportava il caso emblematico di Picerno:


Dal Cuoco, sostanzialmente, dipendeva il generale Pietro Colletta nella sua Storia del Reame di Napoli dal 1734 sino al 1825, pubblicata postuma nel 1834. Essa, come noto, costituì un punto di riferimento per il  moderatismo italiano, accanto, appunto, al Cuoco: fiducioso nel moto progressivo della civiltà e nel valore della libertà, il Colletta riteneva che questa libertà fosse da conseguire non con moti rivoluzionari, ma attraverso un processo graduale.
Uno degli esempi che egli adduceva, tra l'altro, per questo assunto, era proprio quello basilicatese, nel quale, egli scriveva, si “combatteva ciecamente”, prendendo a pretesto l'istituzione delle Municipalità come “pretesto a sfogare odii più antichi”. E, nonostante tutto ciò, affermava il Colletta, il caso di Picerno rappresentava un notevole esempio di unità per la costruzione della patria:

La piccola città di Picerno, che aveva festeggiato con sincera allegrezza il mutato politico reggimento, assalita de’ Borboniani, sbarrò le porte; e aiutandosi del luogo allontanò più volte gli assalitori.
Sino a che, declinando le sorti universali della repubblica, torme più numerose andarono all’assedio; e fu agli abitanti necessità combattere dalle mura, finita dopo certo tempo la munizione di piombo e consultando del rimedio in popolare parlamento, fu stabilito che si fondessero le canne di organo delle chiese, poscia i piombi delle finestre, in ultimo gli utensili domestici e gl’istrumenti di farmacia, con i quali compensi abbondò il piombo come abbondava la polvere.
I sacerdoti eccitavano alla guerra con devote preghiere nelle chiese e nelle piazze; i troppo vecchi, i troppo giovani pugnavano quanto valeva debilità del proprio stato; le donne prendevano cura pietosa de’ feriti; e parecchie, vestite come uomini, combattevano a fianco de’ mariti o de’ fratelli; ingannando il nemico meno dalle mutate vesti che per valore. Tanta virtù ebbe mercede, avvegnachè la città non cadde prima che non cadessero la provincia e lo Stato.
  
Il breve passaggio, carico di retorica, del Colletta, esemplato sulle narrazioni storiografiche latine, fu recepito dalla retorica risorgimentale come exemplum dell'unità civica a fronte della tirannide. Se anche il Colletta aveva riportato l'esempio nell'ambito di una narrazione volta a rimarcare le grandi divisioni che avevano impedito la sopravvivenza della Repubblica napoletana in provincia, l'assedio di Picerno venne recepito e trasmesso volontariamente come esempio di quanto i cittadini potessero fare, anche allo stremo delle forze, per resistere all'invasore. E ciò fu alla base di numerose narrazioni esemplaristiche, in Italia ed all'estero, come comprovato dal fatto che gli eventi di questa petite ville fossero narrati brevemente negli Études sur la révolution française di Alfred Auguste Ernouf, pubblicati nel 1854 e nella breve Histoire du Royaume des Deux Siciles di De Tregain, dello stesso anno. In quest'ultima opera, si parlava di “eroica resistenza”, fornendo per l'assedio di Picerno un richiamo analogico all'antico e presentando, con queste poche parole, Picerno come esempio luminoso in un contesto di guerra civile, di “guerre di cannibali”, recuperando il contesto, dunque, nel quale l'esempio picernese era stato citato dal Colletta. 
Una lettura “civica”, dunque, che avrebbe pesato decisivamente nella trasmissione dell'immagine di Picerno alle generazioni dell'Italia unita, come evidente dal fatto che la breve narrazione del Colletta veniva ripresa nelle Storie segrete delle famiglie reali di Giovanni La Cecilia, pubblicate nel 1861 e nel dizionario militare di Pio Bosi, pubblicato nel 1869. In queste opere, Picerno assurgeva ad esempio, come già in Colletta, di estremo baluardo difensivo della libertà repubblicana.
Poco aggiunge, nell'ambito della costruzione del “mito” civico, il rilevante contributo di Giustino Fortunato che, nel dichiarato obiettivo di restituire alla memoria storica, più che a quella politica, i nomi dei caduti di Picerno, ne trascrisse, come noto, l'elenco ripreso dall'archivio parrocchiale cittadino. Fu il suo amico Benedetto Croce, nell'ambito delle celebrazioni per il primo centenario del 1799, raccogliendo documenti ed immagini, ad inserire, tra le altre, vedute di Tito, Picerno e Muro, riportando, per Picerno:

Lo Sciarpa, il 7 maggio, cingeva di assedio Picerno: invano l'assaliva, dal fiume e dal monte, una prima e una seconda volta: ferocemente, il 10 maggio, v'irrompeva, passando sui corpi dei fratelli Michelangelo e Girolamo Vaccaro. 
Della resistenza è parola nella Storia del Colletta; del massacro delle donne rifugiate nella chiesa parrocchiale di San Nicola è cenno nel Fortunato, I Napoletani del 1799, Firenze, Barbera, 1884. Particolare inedito: lo Sciarpa nominò sindaco un prete paralitico, che bisognò portare in sedia nel mezzo della piazza, e da lui volle il giuramento sul Vangelo di fedeltà al governo borbonico.

Non è un caso che il Croce riportasse notizie di Picerno, definita dallo stesso Sciarpa come baluardo che “si teneva per il forte a difendere la nata, e morta Repubblica” e caduta lo stesso giorno in cui, a est, cadeva l'altro baluardo repubblicano di Altamura.
E infine, Giacomo Racioppi, che, nel 1902, nella seconda edizione della sua Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, parlando degli eventi del 1799, ampio spazio dedicava a Picerno, sulla scorta del Fortunato e del Cuoco. Vale la pena rileggere i brani relativi ai fatti di Picerno: 


Racioppi riprendeva, dunque, con stile piuttosto enfatico, l'episodio del triplice assedio di Picerno, come si nota dalla metafora, presa di peso dalla pubblicistica rivoluzionaria del 1799, degli Aiaci della rivoluzione, che rimanda ad un esempio di tipo epico, quasi a consacrare l'assedio picernese  ad “Iliade casalinga”.
E tra l'altro, in questo velato richiamo all'epica omerica, Racioppi non fece cenno alle donne, presenti nel Cuoco e nel Colletta. Troppo facile gioco lo storico moliternese avrebbe avuto nel ripresentare un episodio tramandato dalla retorica controrivoluzionaria come esempio del rovesciamento di ruoli e di ordini verificatosi durante il pentamestre repubblicano. Egli, invece, secondo le direttrici di pensiero che informano la sua intera Storia dei popoli, preferì insistere sui “prodigi di valore”, presentando, come Croce e come Fortunato, l'episodio di Picerno come paradigma di una coesione civica tra i non più sudditi, ma cittadini autonomi, che, come gli Spartani ricordati più volte dalla pubblicistica del 1799, preferirono morire piuttosto che abbandonare la patria allo straniero.

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